Gesù ha appena ricordato ai discepoli stupefatti, come il popolo, delle meraviglie da lui compiute, che “il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (Lc 9,44). Messaggio incompreso. Ma non illudiamoci! Non capiamo molto più di loro. Solo che per noi questo annuncio rimane, potremmo dire, un discorso intellettuale, confermato e chiuso dalla croce di Gesù. Per noi tutto ciò avviene sulla carta. Per di più, abbiamo sentito tante volte questo messaggio che non ci turba più di tanto. Ma avvenga che questo discorso s’incarni improvvisamente in noi attraverso qualche malattia o qualcuno che ci contraddica, e non capiamo più neanche noi.
Nell’evangelo odierno, l’incomprensione è espressa dai pensieri che agitano i discepoli: anziché riflettere sulle parole di Gesù, discutono su “chi di loro è il più grande”. Ancora una volta, non pensiamo che si tratti del racconto di eventi passati: la disputa dei discepoli è la nostra! Sono le nostre società, le nostre comunità, le nostre chiese, le nostre stesse vite ad essere impestate dal virus del potere, dalle manie di grandezza e dall’egolatria.
Ma come? Dovremmo forse prendere esempio da un bambino? Non sia mai! Il mondo è cosa seria, ha bisogno di una riflessione da adulti; la vita non è un gioco! E continuiamo a non capire, perché per un bambino nulla è più serio del gioco in cui è implicato! Se almeno prendessimo con la stessa serietà le nostre responsabilità in ciò che viviamo e siamo chiamati a compiere.
Comunque è con questo bambino che Gesù si identifica (“se lo mise vicino”), attenzione però: non il bambino preda delle nostre concupiscenze o delle pubblicità che invadono la nostra esistenza. No! Ma il bambino reale, quello che gioca, che piange, che sveglia i genitori di notte perché ha mal di denti, quello che è furbacchione, turbolento, simpatico e perturbatore nel contempo!
Gesù s’identifica con chi non conta, con quel figlio che, finché è bambino, non differisce dallo schiavo – come dice Paolo (cf. Gal 4,1) –, non dallo schiavo nel senso di colui che è fatto per servire, ma nel senso di colui che non ha alcun potere, perché è consegnato al potere altrui. Certo, immaginare una società dove non si eserciti il potere ci è semplicemente impossibile.
Eppure è a qualcosa del genere che Gesù pensa! Potrebbe essere una società fondata sulle necessità essenziali degli esseri umani, una società dove chi prende le decisioni si preoccupi realmente dei bisogni del popolo, come l’immagina Luca quando scrive: “Nessuno era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato … e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,34-35).
Utopia? Forse sì, almeno finché nella Chiesa ci si prenderà troppo sul serio. Forse proprio per questo Gesù esorta Giovanni a non confondere la Chiesa con il suo Signore: ricordati – dice – che “chi non è contro di voi è per voi, ma chi non è con me è contro di me” (cf. v. 50 e Lc 11,23).
fratel Daniel
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