Questi versetti concludono il discorso escatologico che precede la passione, morte e resurrezione del Signore. Per entrare nel mistero di Cristo occorre essere vigilanti, avere sensi desti, cioè non essere dispersi nell’oblio, dimentichi della nostra vocazione profonda.
Che cosa significa propriamente vigilare?
La parabola parallela in Marco definisce la vigilanza come un compito affidato al custode della porta: ciò che la caratterizza è l’ignoranza dell’ora in cui il padrone di casa ritornerà, “se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino” (Mc 13,35). Il suo ritorno sarà sempre “all’improvviso”, inaspettato, supererà indefinitamente ogni nostra attesa o progetto. Non spetta a noi misurare l’ampiezza di questa venuta, né la sua modalità, ma soltanto essere pronti, non addormentati per riconoscere e accogliere il Veniente.
Luca motiva la necessità di vigilare con i pericoli della mondanità (dissipazioni, ubriachezze, eccetera) che portano alla rovina di tutta un’esistenza, perché la svuotano di ciò che la rende sensata, piena, degna di essere vissuta dinanzi a Dio e agli uomini. Allo stesso modo, nell’interpretazione lucana della parabola del seminatore, i rovi sono le preoccupazioni, le ricchezze e i piaceri della vita che soffocano in noi il seme vivo della parola (cf. Lc 8,14). Per questo i discepoli non devono guardarsi soltanto da pericoli esterni (l’ipocrisia di scribi e farisei, cf. Lc 20,46), ma da se stessi (cf. già Lc 17,3).
Due verbi dominano la costruzione: “State attenti a voi stessi” (v. 34) e “Vegliate in ogni momento” (v. 36). I cuori non devono appesantirsi, non devono lasciarsi distogliere dalla loro finalità spirituale.
Come? Perseverando nella vigilanza e nella preghiera. Solo così acquisiremo il discernimento per evitare la catastrofe finale, cioè l’ultima “prova” o “tentazione” (peirasmós in Mc 14,38). Occorrono però forza, energia morale e persino resistenza fisica. I cristiani sono appunto “coloro che hanno cercato rifugio” in Dio (Eb 6,18), cioè che hanno saputo sfuggire alle tentazioni, resistere alle prove per essere trovati pronti all’incontro con il loro Signore, a comparire “in piedi” davanti al Figlio dell’uomo. Secondo Paolo, i cristiani sono i figli del giorno, che non dormono e non si ubriacano, ma sono rivestiti della fede e della carità, e hanno “come elmo la speranza della salvezza” (1Ts 5,2-8).
Questo vangelo ci mette in guardia da ciò che minaccia di far deviare la nostra vita interiore offuscando l’unico necessario della parola di vita (cf. Lc 10,41). Se lo perdiamo di vista, il giorno del Signore giungerà come un “laccio” (paghís), come una rete, trappola o imboscata, che imbriglia e blocca la situazione in cui ci troviamo, senza permetterle più di cambiare e di evolvere. La perseveranza consiste invece nel mettere sempre in discussione la nostra prassi alla luce del Vangelo, che contesta la nostra mancanza di fede e di carità, per darci speranza e disporre il nostro cuore alla conversione, cioè al perdono e alla misericordia verso i fratelli e le sorelle, compagni del nostro cammino verso il regno che viene. È questa anche la grande occasione che ci offre il tempo liturgico dell’Avvento in cui stiamo per entrare.
fratel Adalberto
Puoi ricevere il commento al Vangelo del Monastero di Bose quotidianamente cliccando qui