Pochi versetti, quelli del vangelo odierno, e un messaggio chiaro.
Io vorrei sottolineare solo due aspetti in un certo senso in tensione tra di loro: la rottura e la non-solitudine.
Marco 3,31-35 ha un parallelo in Luca 8,19-21 e in Matteo 12,46-50; in quest’ultimo caso il contesto è lo stesso. Anche altrove gli evangelisti registrano una presa di distanza di Gesù dalla sua famiglia e l’incomprensione del suo ambiente (Gv 7,5; Lc 11,27-28; Mt. 13,57; Mc 6,4; Lc 4,24; Gv 4,44). Il nostro passo si trova alla fine del cap. 3 di Marco, in cui è descritto il crescere dell’opposizione a Gesù. Siamo in Galilea, Gesù è di fronte all’uomo dalla mano paralizzata; dopo aver chiesto se fosse lecito o no salvare una vita, “guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori” compie la guarigione (3,5). Il suo agire provoca la reazione dei farisei e degli erodiani che già ora ne decidono la condanna a morte: essi “tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (3,6). Poco dopo, sul monte, “chiamò a sé quelli che voleva” e ne costituì Dodici perché stessero con lui e fossero associati alla sua missione (3,13-14). Anche qui, tra coloro che erano andati a lui è presente la possibilità dell’opposizione; di Giuda è detto: “il quale poi lo tradì” (3,19).
Subito dopo è riportato un episodio proprio a Marco: “i suoi uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: ‘È fuori di sé’” (3:21). Non è precisato chi siano “i suoi”: la costruzione grammaticale indica una relazione stretta. Assistiamo in ogni caso a un alternarsi di ostilità e incomprensioni provenienti sia da chi è vicino, sia da chi è lontano. Subito dopo gli scribi accusano Gesù di essere posseduto da uno spirito impuro e di agire per mezzo del capo dei demoni. Ed è qui che si inserisce la nostra pericope. Giungono la madre e i fratelli di Gesù (di cui altrove si ricordano anche i nomi: Mc 6,3) e, a differenza dei testi paralleli dove si dice che essi cercavano di parlargli o volevano vederlo, qui fanno un’azione che quasi allude alla scelta dei Dodici fatta da Gesù poco prima: essi mandano degli inviati per “chiamarlo” (verbo che Marco usa per la vocazione dei figli di Zebedeo e solo in due altri passi). Sembra quasi che vogliano riportarlo a una situazione precedente quel suo passare lungo il mare di Galilea e chiamare (1,14-20), quel suo convocare con urgenza i Dodici e farne degli inviati.
Gesù, che precedentemente aveva volto intorno il suo sguardo con indignazione verso coloro che volevano accusarlo, solleva ora gli occhi e guarda intorno. Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui scorge uomini e donne abitati dal desiderio di Dio e desiderosi di farne la volontà.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea” (Sal 22,23). “Ecco, io vengo. Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio, questo io desidero … Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea … non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea (Sal 40,8-11). In Mt 11,25 Gesù aveva reso lode al Padre per la rivelazione fatta ai piccoli; qui siamo di fronte a qualcosa di simile, quando Gesù discerne che attorno a lui il Padre ha attirato altri disposti a dire: ecco io vengo, per fare la tua volontà. La terminologia che troviamo qui è delicata: fare la volontà è un’espressione rara; in Marco il termine “volontà” compare solo qui. La parola ebraica da cui deriva ha i connotati del desiderio (Sal 145,19) e del compiacimento (Ger 9,23). È lo Spirito (“il tuo spirito buono”, Sal 142,10) che può guidare nel fare questa volontà. In Marco non troviamo una descrizione di cosa essa sia, solo ce ne è data una definizione negativa attraverso l’elenco delle cose che impediscono al seme di portare frutto: l’incostanza di fronte alle tribolazioni, l’essere presi dalle preoccupazioni del mondo e dalla seduzione delle ricchezze (Mc 4,17-19). Gesù vede che il suo annuncio e le sue azioni, seppur ripetutamente rigettati e ostacolati, sono stati accolti da alcuni e in essi porteranno frutto. Alcuni li hanno accolti con gioia e attestano che sono state inaugurate una fraternità e una fecondità nuova. Seguire Gesù e insieme a lui imparare a fare la volontà di Dio ci rivela la possibilità di essere fratelli lontano dall’omicidio e nella custodia reciproca. Gesù è il primogenito che non si vergogna di chiamarci fratelli, colui che “è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Eb 2,18), colui che Dio, lui che conduce molti figli alla gloria, ha reso perfetto (2,10).
sorella Raffaela
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