Con Gesù di Nazaret Dio entra nella storia degli uomini e delle donne e cammina con loro con gesti di cura, con parole che rivelano la sua tenerezza e il suo amore sconfinato. Gesù sta per dare un orientamento preciso al suo ministero itinerante: si recherà a Gerusalemme, la Città santa, dove sarà “consegnato nelle mani degli uomini” (Lc 9,44). Prima di prendere questa “ferma decisione” (Lc 9,51) l’evangelista Luca ci consegna due brevi dialoghi tra Gesù e i discepoli, suoi compagni di viaggio, che toccano annose questioni che interrogano la nostra vita e i nostri rapporti interpersonali.
È messa al bando un’unica postura, un’antica tentazione che ciclicamente si ripresenta nelle nostre biografie e nella storia della chiesa stessa: la presunzione di superiorità o mania di grandezza che si annida all’interno della comunità (vv. 46-48) e che investe il nostro rapporto con il mondo esterno creando una logica di contrapposizione tra dentro e fuori (vv. 49-50). All’interno si perde tempo e si spendono energie in gelosie, liti, denigrazioni, rancori nell’accaparrarsi consensi e ammiccamenti per essere riconosciuti più grandi; verso l’esterno si ergono staccionate di pregiudizi e barriere di difesa per paura e ignoranza nei confronti dell’altro che diventa un nemico, anche se non opera nulla di male e fa le stesse nostre cose.
Sentirsi superiori, più grandi, più bravi, migliori non è così semplice da riconoscere. Spesso questo atteggiamento è camuffato da un linguaggio che esprime il contrario, da una falsa e apparente presunta umiltà che nutre i nostri narcisismi, i nostri sogni di gloria, la nostra fame di potere. Spesso è proprio all’interno di una scelta di appartenenza a un gruppo o una comunità che si ispira al Vangelo che si può insinuare con più forza e con sommo pericolo l’idea di essere i detentori di un carisma eccezionale, fino ad appropriarsene pensando di essere gli unici a poterlo vivere, soffocando così la poliedricità dello Spirito del Signore e la sua potenza ispiratrice che non ha confini.
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Perché Gesù coinvolge un bambino e lo pone al centro dell’attenzione? Forse perché il bambino spezza i mediocri meccanismi di potere dei grandi, infrange le pose di chi vuole ostentare e immortalare le proprie gesta eroiche. “Quando il bambino era bambino non aveva opinioni su nulla, non aveva abitudini, sedeva spesso con le gambe incrociate, e di colpo si metteva a correre, aveva un vortice tra i capelli e non faceva facce da fotografo” scrive Peter Handke nell’Elogio dell’infanzia.
Il bambino ci mette a nudo, ci disarma, ci chiede di abbandonare il nostro armamentario intellettuale; con i suoi inesauribili perché ci rivela l’inconsistenza delle nostre incrollabili certezze; con il suo gioco, il suo ridere spassionato, il suo correre fa esperienza della libertà, reinventa il mondo, è capace di meravigliarsi e di stupirsi. Per questo Gesù può identificarsi con quel bambino. Accogliere un bambino è accogliere lui, accogliere Gesù è accogliere il Padre. La vita è un dono che viene dall’alto e come tale va accolta, non trattenuta, perché diventi dono per altri.
fratel Giandomenico
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