Secondo dei tre racconti di guarigione in giorno di sabato (cf. Lc 6,6-11; 14,1-6), sembra che si tratti sempre di impedimenti al movimento, da cui Gesù libera. Tutto avviene in un quadro di insegnamento che, in questa scena come in quella di Luca 6,6-11, avviene in sinagoga, dunque nel luogo e nel giorno specifici della relazione obbediente con Dio.
Ciò che l’intervento di Gesù rende possibile è qualcosa che le osservanze della Legge non riescono a garantire o a realizzare, ma è il risultato di un incontro con lui “lungo la strada”, una sua iniziativa che si concretizza in una possibilità di movimento, in un più agile riprendere il cammino della vita.
Questo è per me un testo da sempre problematico: tentazione, spesso neppure troppo riconosciuta come tale, di pensare come il capo della sinagoga, cercare in ogni caso un ragionevole compromesso che eviti le frizioni e permetta il rispetto delle tradizioni e delle sensibilità personali, pur proclamando di fare spazio alla novità di Gesù nella concretezza della sequela. Problema di un Gesù difficile da capire, che mette in discussione quelle che, secondo il mio punto di vista e la mia sensibilità, sono i comportamenti più opportuni: dunque, per vivere un rapporto con lui, per avere i suoi sentimenti, devo pormi la domanda del “perché” di un tale atteggiamento ai limiti della provocazione e tentare delle risposte.
Forse l’intendimento, che diventa una serie di proposte per me, è uscire dalla logica del “do ut des”, dell’osservanza come condizione e premessa della guarigione. Gesù interviene, invece, senza che ci siano richieste e, soprattutto, senza dare priorità alle regole stabilite dalla tradizione. Vede la situazione della donna e agisce subito, qui ed ora. Una liberazione che non attende e non calcola.
Dato che le donne in sinagoga sono tenute in disparte, in un luogo loro riservato, ci vuole un “vedere in grande” anche solo per notarne una in particolare, non come elemento di un gruppo ma nella sua realtà esistenziale, non solo nel suo disponibile ascoltare, ma anche nella sua infermità.
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Gesù mostra la sua umanissima attenzione al bisogno, unita alla capacità di un intervento potente di liberazione, ma il testo lo qualifica come “il Signore” (v. 15) solo quando svela la sua conoscenza della vicenda della donna e la interpreta autorevolmente come schiavitù satanica e non come responsabilità o addirittura colpa. Anche questo sollevare dagli scrupoli e dall’autocolpevolizzazione è un aspetto della liberazione effettuata e delle modalità della Signoria di Dio sugli uomini e sugli eventi!
Davanti allo stesso segno, la libertà di reazioni diverse: gloria a Dio nel semplice constatare ciò che è avvenuto, o sdegno per la violazione delle regole del riferimento e del servizio a Dio. Pensiero ipocrita che discerne e dà peso ai bisogni degli animali e non riconosce quelli degli uomini, uno sciogliere selettivo ed integralista che non si pone problemi e offusca il senso liberante del riposo sabbatico (cf. Es 20,8).
Violare il precetto per la gloria di Dio: possibile se si mantiene come criterio la sua Parola, ma la si legge e la si pratica non solo nella lettera della Scrittura ma anche nella carne dell’uomo sofferente.
fratel Daniele
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