La chiesa oggi fa memoria del giorno in cui, alcuni anni dopo la crocifissione di Gesù, sulla strada di Damasco, “verso mezzogiorno, all’improvviso una grande luce dal cielo sfolgorò attorno a Paolo; egli cadde a terra e sentì una voce che gli diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’” (cf. At 22,6-7). Paolo, infatti, allora “osservante scrupoloso della Legge dei padri … perseguitava a morte i cristiani, incatenando e mettendo in carcere uomini e donne” (cf. At 22,3-4), come ricorda lui stesso nella prima lettura che viene proclamata nella liturgia per questa memoria. Si tratta dell’evento della rivelazione di Gesù Cristo a Paolo, che fa di lui l’“apostolo delle genti”, secondo l’appellativo che gli attribuirà la tradizione, cioè il “testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che ha visto e udito” (cf. At 22,15).
Da quel giorno, Paolo inizierà a mettere in pratica le istruzioni del Risorto che leggiamo nel passo evangelico odierno, e attraverso la sua vita renderà manifesti i segni promessi a coloro che credono.
I suoi viaggi missionari porteranno effettivamente Paolo – che morirà a Roma, caput mundi – ad andare “in tutto il mondo” (v. 15), per proclamarvi l’evangelo. E se i dodici, ai quali queste parole del Signore erano inizialmente rivolte, sono descritti come increduli (qualche versetto prima del nostro brano Marco segnala che essi “non credettero” all’annuncio della resurrezione: cf. Mc 16,13), Paolo da parte sua proviene addirittura dall’esperienza dell’opposizione violenta alla fede: la proclamazione della buona notizia non avviene dunque mai attraverso eroi della fede senza difetti, ma è trasmessa da uomini e donne in carne e ossa, con le loro imperfezioni e le loro qualità, i loro dubbi e le loro speranze, le cui debolezze possono spesso rivelarsi punti di forza (cf. 2Cor 12,10).
La fede proclamata si inscrive quindi nel tessuto concreto della storia, si incarna: credere non è una questione di sole parole, né un mero spiritualismo disincarnato, ma si traduce anche in gesti e azioni, che coinvolgono il corpo, le mani e i piedi. Implica allora una scelta radicale per chi aderisce: quella di lasciarsi segnare nella propria persona dal sigillo della morte e della resurrezione di Cristo, nel quale si è scoperto un senso al proprio vivere, una salvezza.
Tale opzione diventa manifesta quando fa vincere il bene sul male sotto tutte le sue sfaccettature: quando oppone la pace, l’integrità, alla divisione demoniaca; quando fa rinunciare al desiderio di essere dio insinuato dal serpente (cf. Gen 3,4-5) per scoprirsi accettati così come si è; quando rigetta il beveraggio velenoso dell’odio, della paura e dell’esclusione in favore di una pratica ospitale; quando spinge ad accompagnare gli infermi – senza temere il contatto con loro – per curarli invece di ignorarli.
Questo è il linguaggio nuovo con il quale l’evangelista caratterizza tale nuova esistenza: attraverso queste “lingue nuove” che i credenti parleranno (v. 17), saranno capaci di trasmettere l’indicibile della buona notizia “a ogni creatura” (v. 15). La loro vita stessa, come quella dell’apostolo Paolo, prenderà la forma dell’evangelo che proclamano.
fratel Matthias
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