Fare spazio all’attesa
“Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù allora indurì il suo volto per camminare verso Gerusalemme” (Lc 9,51), e da quel momento si interrogò su come continuare la sua missione di annunciatore dell’evangelo ai poveri iniziata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18) percependo l’urgenza che sottostava a quella missione e condividendo con i suoi discepoli l’imminenza sottesa.
Il tempo si è fatto breve e l’indugio, mai portatore di futuro né di vita, più che mai va abbandonato per fare spazio al tempo dell’attesa, tempo fecondo e gravido di domani. Attendere non è poltrire pensando che intanto il tempo sia infinito, che chissà quando accadrà che il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, ma è prepararsi, indurendo anche il volto, se necessario, per affrontare l’attesa che potrebbe protrarsi non sappiamo per quanto.
“Siate pronti con le vesti strette ai fianchi” (v. 35), come se ci fosse un lavoro improvviso da compiere o un servizio da prestare o un viaggio imminente fosse all’orizzonte. È l’abbigliamento prescritto per la cena pasquale, in previsione dell’esodo nel deserto a cui si stava per partire (cf. Es 12,11). La cintura permette di tenere sollevato l’abito per poter camminare più speditamente nel momento in cui il padrone tornerà dalle nozze.
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È come un allenamento continuo per non adagiarci sulle nostre fragili sicurezze e deboli certezze. Le vesti cinte, strette ai fianchi, riducono il rischio di inciampare nei pensieri malvagi e nelle parole di odio, nei progetti di violenza o nella follia della guerra. Vestiti in tal modo si possono scavalcare le barriere mentali e fisiche costruite per difendersi dall’altro, il diverso e nemico, dimenticando che il vero nemico è in noi stessi.
Attendere è fatica. Occorre infinita pazienza per restare svegli anche nelle notti dell’umanità quando, senza scomodare discorsi spirituali, anche solo il semplice buon senso viene meno e prevalgono le reazioni viscerali e i diktat categorici. Può sembrare frustrante, attendere colui che torna dalla festa di nozze mentre noi siamo a casa, eppure è essenziale ricordare la pazienza e la fedeltà dell’attesa del padre che aspetta sulla soglia il ritorno del figlio (cf. Lc 15,11-32), l’attesa di Dio, Padre di misericordia, che attende il ritorno dai nostri personali smarrimenti.
Il padrone viene e bussa alla porta nonostante sia casa sua, bussa per dare il tempo di riaversi dal possibile assopimento, dall’intorpidimento delle menti. Il Signore viene alla nostra porta: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Entra e addirittura si cinge le vesti e si mette lui stesso a servire i servi, così come si mette a servire noi tutti nelle nostre vite. “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Mt 20,28).
Forse una domanda ci potrebbe accompagnare nell’attesa, un interpello che ci fa volgere lo sguardo dalla certezza del ritorno Signore a come saremo noi quel giorno: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
fratel Michele
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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