Il “di più” nel “di meno”
“Maestro, da te vogliamo vedere un segno” (v. 38): non è un peccatore che avanza questa richiesta a Gesù, sono “scribi e farisei”, i “giusti” per antonomasia, i rappresentanti del mondo religioso, quelli che frequentano le sinagoghe, che conoscono la legge. Proprio loro si avvicinano a Gesù con una pretesa, pongono Gesù di fronte a delle condizioni per credere: “Noi crederemo a patto che…”, cercano garanzie e prove certe per fare fiducia a Gesù e alla sua parola. Vogliono “un di più”.
Scandalizzati, prendiamo distanza da questi uomini, come se tali pretese e attese non ci appartenessero. Ma la Parola penetra e ci svela e rivela a noi stessi, ci chiede di interrogarci sul nostro stare di fronte e Gesù: con quali domande, attese, pretese ci mettiamo alla sua sequela e cerchiamo la relazione con lui? Cosa “vogliamo” da lui?
Ma la pagina di oggi ci rimanda e ci interroga anche sullo stato dei nostri occhi, e di conseguenza del nostro cuore. “Vogliamo vedere”: questi uomini sono di fronte a Gesù ma non vedono, sono affetti da cecità e da una malattia molto comune a ogni generazione, la durezza di cuore. “Generazione perversa e ribelle, generazione dal cuore incostante, dallo spirito infedele a Dio” (Sal 78,8). Siamo noi forse migliori?
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Eppure, per quanto cerchiamo di prendere distanza, “una generazione malvagia e adultera” (v. 39) è la nostra stessa generazione, uomini e donne di ogni luogo e di ogni tempo, sempre colmi di pretese, insoddisfatti, ciechi e sordi, incapaci di riconoscere con meraviglia e stupore il “più grande” (cf. vv. 41.42) che sempre ci viene dato. Lasciamo che il male ammali il nostro cuore, lo indurisca, lo riempia a tal punto con illusioni e falsità da non avere più lo spazio per ricevere il dono. Cerchiamo, ma cerchiamo in direzioni sbagliate.
Cerchiamo un inequivocabile per poter far fiducia, ci attendiamo di vedere. Cosa? Grandi numeri, guarigioni che sanno di magia, intensità emotive che scaldano il vuoto, la sofferenza, la mancanza che ci abitano. E non riconosciamo colui che è “il di più”, colui che è “più grande” perché si è fatto più piccolo, silenzioso. Noi cerchiamo nel “vento impetuoso e gagliardo … nel terremoto … nel fuoco” (1Re 19,11-12), cerchiamo segni nella forza del rumore, nel potere della visibilità, nella magnificenza dei riconoscimenti, “ma il Signore non era …” (1Re 19,11-12).
Nessun segno ci è stato promesso, uno assicurato: quello di una croce e di un sepolcro vuoto. Quello dell’abbassamento, di un uomo che depone la vita nelle mani dei nemici come risposta al male. Noi cerchiamo “il di più” nell’altisonanza dei segni, mentre “il di più” è “nel di meno”, è nel basso, nel piccolo, nel silenzioso e invisibile. “Dopo il fuoco, il silenzio di una voce sottile” (1Re 19,12). “Uno più grande …” (v. 41), perché si è abbassato più di chiunque, e non solo nel ventre del pesce, ma nelle viscere delle nostre malvagità, negli inferi di ciascuno di noi è disceso per poi uscirvi, trascinando con sé, liberi una volta per sempre, tutti noi, ogni generazione.
“Uno più grande …” (v. 42): la grandezza di Gesù non è nella straordinarietà dei segni che noi pretendiamo come condizione del nostro credere, ma nella piccolezza, nel silenzio, nel nascondimento di un dono che è “più grande” di ogni immaginabile sapienza perché è nascosto nella follia di una croce, nel vedere il vuoto della tomba, nella deposizione di una vita, spinti solo e soltanto dall’impalpabile e invisibile amore.
Questo il grande segno di fronte al quale saremo giudicati: “il di più” dell’amore, donato, gratuito, a dismisura.
sorella Elisa
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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