Gesù si fa conoscere a Natanaele, “un israelita in cui non c’è falsità” (v. 47). Sì, perché il Signore si fa trovare da chi lo cerca con tutto il cuore, da chi lo invoca con sincerità (cf. Sal 145,18). Non dobbiamo temere: se cerchiamo veramente il Signore con cuore sincero, egli si fa trovare; anzi, nel farsi trovare ci rivela che già lui prima ci aveva visti e cercati, come qui Gesù dice di aver visto Natanaele quando era sotto il fico, immagine che nella letteratura rabbinica indicava la meditazione delle Scritture.
Grande a volte può essere il nostro vagare, il nostro errare, e anche nella ricerca del Signore può sembrarci di andare a tentoni e di non essere sicuri di star facendo davvero la volontà del Signore. Del resto, finché siamo in questa vita solo di due cose possiamo forse avere una qualche sicurezza: il nostro povero e misero tentativo – se c’è – di non essere falsi, menzogneri, ipocriti, bugiardi di fronte anzitutto a se stessi, alla propria coscienza, e di conseguenza anche di fronte a Dio e agli altri, e poi – e questa è l’unica sicurezza veramente granitica –, la fedeltà del Signore, che ama ciascuno e tutti di un amore incondizionato e fedele e che sempre porta a compimento le sue promesse.
E la promessa che Gesù fa a Natanaele è proprio questa: una comunicazione fra il cielo e la terra resa possibile da lui, dal Figlio dell’uomo (cf. v. 51), titolo che indicava un essere divino. Vi è un amore di Dio che nel Figlio Gesù si manifesta e si offre a chi lo cerca con sincerità. E Natanaele era stato sincero, a costo quasi di essere offensivo: “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?” (v. 46).
Dio non si spaventa di fronte alle nostre parole e al nostro atteggiamento nei suoi confronti, anche se è un atteggiamento di diffidenza e di rifiuto: basta che sia sincero, basta che noi ci siamo veramente, senza mentire, senza cercare false apparenze o senza seguire mode spirituali. È il nostro cuore che il Signore cerca, per incontrarci e parlare al nostro cuore, anzi, sul nostro cuore (cf. Os 2,16: “parlerò sul suo cuore”).
Quando nelle nostre parole, nelle parole che impieghiamo nella nostra preghiera ci siamo veramente, ci mettiamo noi stessi, accettando di far venire a parola quei sentimenti e quelle emozioni che ci portiamo dentro senza camuffarle, senza averne paura, senza rimuoverle per un nascosto senso di colpa, ma diamo loro voce, fosse pure per dire, con Natanaele: “Da quel luogo può mai venire qualcosa da parte del Signore?”, il Signore ci viene incontro e ci fa conoscere che eravamo da lui conosciuti e amati, e allora il nostro cuore, che ha accettato di essere se stesso, può incontrare il cuore di Dio e conoscere il suo amore: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo” (v. 51).
Ciò che ci impedisce di incontrare il Signore non è, dunque, l’eventuale ribellione o diffidenza che è in noi, ma piuttosto quella tiepidezza (cf. Ap 3,15-16) che è il frutto di un susseguirsi di piccole menzogne che abbiamo detto a noi stessi, a Dio e agli altri e che non ci fa più incontrare né il nostro cuore, né il Signore, il quale sempre sta alla porta del nostro cuore e bussa (cf. Ap 3,20). Apriamogli!
sorella Cecilia
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