Stai soffocando, non vedi?
Oggi ascoltiamo Gesù rispondere prima, brevemente, a chi gli chiede di fare da giudice in una questione di eredità (cf. vv. 13-15), e poi, approfittando dell’occasione, rivolgere alla folla un insegnamento più generale, in parabola (cf. vv. 16-21).
La risposta di Gesù a “uno della folla” (cf. vv. 14-15) discerne nella richiesta la manifestazione di una “cupidigia”: questa, più del problema ereditario, divide i fratelli. Gesù sposta l’attenzione – come è sua prassi abituale – sulla radice del conflitto, su quel luogo, il cuore, che sta all’origine di ogni conflitto. Perciò si rivolge più generalmente a “loro” (v. 15), cioè a tutta la folla radunata attorno a lui, per insegnare che i beni materiali, denaro o proprietà, quale che sia la loro abbondanza, non possono assicurare la vita, non possono dare un senso alla vita. Per insegnare a noi tutti che la pleonexía – letteralmente “il desiderio di avere più degli altri”, sotto forma di possessi o privilegi, quindi la brama, la cupidigia, il desiderio di usurpare, la sete di dominio – è un male profondo, perché cela una prospettiva errata e mortifera sulla vita: la vita come fondata sull’avere. La risposta di Gesù è volta a correggere questa prospettiva: l’avere non fonda l’essere, anzi l’avere può facilmente soffocare, togliere il soffio vitale. “Se fai dipendere la tua vita da ciò che hai, distruggi ciò che sei” (S. Fausti), ti soffochi da te stesso.
I vv. 16-17 descrivono le sue riflessioni interiori di un proprietario terriero circa la gestione dei suoi beni. Dopo attenta riflessione, frutto di un monologo interiore, giunge a una decisione funesta. Trascinato dalla logica della brama, del profitto, dell’accumulo, agisce di conseguenza. E proprio qui si rivela palesemente il suo errore: a quello che ha ricevuto dalla natura e ottenuto con il proprio lavoro avrebbe dovuto rispondere con il dono e non con l’accaparramento. L’intenzione viziata dalla brama è peraltro ben rivelata dall’uso eccessivo degli aggettivi possessivi: “i miei raccolti” (v. 17); “i miei magazzini” (v. 18); “i miei beni” (v. 18); “anima mia” (v. 19).
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La questione cruciale è: “per chi” si costituisce un tesoro? Il ricco ha accumulato per sé e pensa solo ad accrescere i propri beni. Non ha altro partner che la sua anima con la quale si intrattiene come se fosse un altro: dialoga con uno specchio. Tutto si riduce a un faccia a faccia tra l’uomo e i suoi beni. Nessun “altro” compare nel racconto, e l’uomo – tragicamente – è inconsapevole della propria solitudine narcisistica. Ma ecco il dramma a sorpresa: “Questa notte stessa verranno a richiedere la tua vita. Per chi sarà allora ciò che hai preparato?” (v. 20). Giunge così, a sorpresa, il faccia a faccia inatteso con l’interlocutore di cui il proprietario avrebbe dovuto tener conto: si impone, come un lampo, il dialogo che l’uomo aveva sempre evaso.
Questa parabola è raccontata per ricordarci innanzitutto che l’essere umano non è proprietario della vita, ma il suo responsabile. La parabola ci impegna a costruirci la vita avendo di fronte la nostra morte, innanzitutto. La memoria mortis come principio di sapienza: “Insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90,12). La parabola ci mostra inoltre l’orientamento da dare alla nostra vita e a ciò che essa contiene, i beni e tutto il resto: energie, relazioni, opinioni, eccetera. Quell’uomo ha drammaticamente sbagliato il luogo dove accumulare le sue ricchezze, le “cose” che facevano la sua vita. Ha cercato di “accumulare per sé” anziché “essere ricco per Dio”, anziché “farsi ricco – letteralmente – verso Dio” (v. 21).
fratel Matteo
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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