Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 23 Gennaio 2021

Sostiamo su questi due versetti, dando però uno sguardo al resto del capitolo, che culmina con una ridefinizione della familiarità-appartenenza attorno a Gesù (cf. vv. 34-35). Marco costruisce questa unità letteraria con una tecnica “a sandwich” perché si leggano insieme i vv. 20-21 e 31-35, lasciandosi sorprendere da ciò che vi si trova in mezzo, i vv. 22-30.

Al v. 21 c’è l’iniziativa dei “suoi”; al v. 31 l’effettivo sopraggiungere di “sua madre e i suoi fratelli”; e in mezzo… le bestemmie degli scribi! Il provocatorio accostamento ci fa leggere di fila ciò che i suoi dicevano di Gesù: “È fuori di sé”, e ciò che segue: “Costui è posseduto da Beelzebul”, “da uno spirito impuro”. È uscito pazzo, ha perso la testa, non è più lui, non riconosciamo più il nostro Gesù!

Cosa muove i parenti che vengono a recuperarlo? L’avevano visto lasciare casa per raggiungere il Battista, e poi iniziare una vita itinerante lontano dalla più rassicurante sistemazione che avrebbe potuto trovare all’interno del clan familiare. Ora lo ritrovano con degli sconosciuti, braccato da una folla che non permette loro neanche di mangiare del pane.

I “suoi” non capiscono e non vogliono sapere altro, intendono solo riportarlo a casa. Quel che si dice di lui (cf. vv. 22.30) li preoccupa e certo non giova al buon nome della famiglia. Ma rimarranno “fuori” (cf. vv. 31-32) perché Gesù, rispondendo alla sua singolare vocazione, è andato oltre, ha assunto una missione che l’ha portato a uscire dal clan e dalle sue logiche: sì, ormai “è fuori” dalle determinazioni del senso comune e del sangue, da reti di vincoli, abitudini, convenzioni… trascese nel compiersi di una promessa.

Ogni figlio è figlio di una promessa, dono di una novità che non ci appartiene, come Isacco per Abramo (cf. Gal 4,28). I genitori – osserva la sapienza popolare – possono offrire solamente radici e ali: la possibilità di radicarsi in un amore e di credere nella capacità di spiccare il volo.

Kahlil Gibran, ne Il Profeta, risponde così a una donna che, mentre stringeva il bambino al seno, chiedeva di parlare dei figli:

“I vostri figli non sono vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,
e, benché vivano con voi, ciò non di meno non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
perché essi hanno i loro, di pensieri.
Potete offrire dimora ai loro corpi, ma non alle loro anime,
perché le loro anime abitano la casa del futuro, che neppure in sogno potete visitare.
Potrete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi,
perché la vita procede e non si ferma al passato.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive sono scoccati avanti.
L’Arciere vede il bersaglio sulla linea dell’infinito, e con la forza vi tende affinché le frecce vadano veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
perché, come ama le frecce che volano, così ama l’arco che sta saldo”.

Vale per un figlio, come per ogni altra persona o realtà di cui non possiamo impadronirci. Viene il momento in cui c’è da scegliere se stendere la mano per riafferrare e trattenere o per sostenere e rimettere in cammino (sono i possibili significati del verbo kratéo usato qui al v. 21 e in Mc 12,12; 14,51, ma anche in Mc 5,41; 9,27).

fratel Fabio


Fonte

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