«Concedi ciò che comandi e poi comanda ciò che vuoi», pregava Agostino (Da quod iubes et iube quod vis). Dinamica che sintetizza anche il movimento che percorre questi versetti del Vangelo secondo Luca, in cui l’azione dei Dodici è preceduta e resa possibile da una chiamata e da un dono, quello della forza e dell’autorità per far arretrare il male. Quel Gesù che, nei primi capitoli del Vangelo lucano, viene presentato come il Salvatore che cura e guarisce assicura una prosecuzione e una estensione della sua opera di salvezza attraverso il ministero di coloro che da Lui sono inviati, un ministero che attinge in Lui energia e senso per annunciare il mistero di amore di Dio, cioè la buona notizia del Regno.
Gli inviati viaggiano leggeri, facendo a meno anche di quello che sembrerebbe essere «il bagaglio indispensabile per viaggiatori prudenti», che forse era anche l’equipaggiamento abituale per i pellegrini che si recavano a Gerusalemme: «Gesù avrebbe in questo caso radicalmente rovesciato lo scopo, il contenuto e le condizioni materiali del pellegrinaggio: anziché salire a Gerusalemme, si va dagli israeliti dispersi; anziché compiere il proprio dovere religioso, si porta la buona novella; al posto del fagotto e del bastone del pellegrino, si porta il vestito minimo degli ultimi tempi. Il missionario, con la sua attività, farebbe così della semplice abitazione profana un santuario. La santità toccherebbe ciascuno nella sua mondanità e più nessuno avrebbe bisogno di frequentare il santuario. Un rovesciamento così radicale presupporrebbe una riflessione sul luogo della santa presenza di Dio, la quale non sarebbe più legata al tempio, ma alla persona del messaggero di Dio» (F. Bovon).
Tale ministero è possibile ed è fecondo se si radica in una fondamentale fiducia nell’ospitalità: i Dodici si contraddistinguono per una certa “nudità” missionaria che non prende su di sé carichi superflui che appesantiscono i passi dei messaggeri (cf. Is 52,7), anzi che sembra addirittura fare a meno del minimo indispensabile, perché si affida all’accoglienza di coloro che apriranno la porta di casa e del cuore all’annuncio della misericordia, della novità, del ricominciamento possibile, in un’ospitalità che dovrebbe bandire ogni esclusione, per costruire legami nuovi di comunità e comunione.
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Tale ministero poi è fatto di un “rimanere” e di un “ripartire”, in una fondamentale fiducia nella condivisione: non è un’itineranza girovaga ma un sostare nello spazio domestico della casa, partecipando della vita e del lavoro di uomini e donne che intesse una “compagnia”, nel senso fondamentale del termine, cioè la condivisione del pane, del cibo, di un tetto.
Non c’è spazio per accumulare dei beni, né per cercare comodità passando da un ospite a un altro, ma solo una grazia della provvisorietà che comunque non mette al riparo dal rifiuto possibile. Nel qual caso ci si scuoterà la polvere dai piedi: è un gesto che «non esprime né collera né rancore, ma simboleggia la rottura del rapporto tra persone»; non vuole essere una mancanza di amore per il prossimo né una maledizione, «ma l’amore per il prossimo può esigere talvolta che si lasci l’altro solo con la sua responsabilità. L’amore che cerca di costringere non è più amore» (F. Bovon).
La cura e la guarigione di malati e infermi, al di là di qualsiasi potenza miracolistica, dice poi l’attenzione e l’integrazione dei marginali e degli esclusi, che la malattia confinava ai margini della vita comune nel clan e nella comunità, in un dinamismo distanziante che mescolava impurità e colpa. Perché il Vangelo è anche gesto che rialza, cura e risana le ferite del corpo e dell’intimo.
Un monaco di Bose
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