Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 21 Settembre 2020

Vicino a Cafarnao Gesù incontra Matteo seduto al tavolo per riscuotere le tasse (cf. 5,46; 10,3). “Matteo” è designato con il nome di Levi sia in Marco 2,14 che in Luca 5,27. Gli ebrei potevano avere due nomi semitici (cf. At 4,36), ma è possibile che Gesù stesso avesse dato a Levi il nome di Matteo, come aveva chiamato Pietro Simone: il cambio di nome racchiude spesso il senso di una vocazione.

Il vangelo presenta la chiamata di Matteo senza preamboli, nella sua assoluta radicalità: “Seguimi!”. È l’essenziale di una storia, di una relazione di amore e libertà con il Signore che chiede un preciso atto di volontà, una risposta nei fatti e non nelle parole: “Ed egli si alzò e lo seguì”. Il racconto di questa vocazione fa eco a quello di altri quattro discepoli in Matteo (cf. 4,18-22) e anticipa la lista dei Dodici in 10,1-4. Gesù prende l’iniziativa, chiama alla vita vera, ma con un rispetto infinito della libertà del discepolo. Naturalmente questo racconto estremamente conciso non significa che Matteo non avesse già ascoltato il ministero di Giovanni Battista o sentito parlare delle parole e azioni di Gesù.

Il vangelo lascia intendere che questa chiamata destò scalpore. I pubblicani – come Matteo – erano considerati pubblici peccatori per il loro collaborazionismo con i romani e la prassi di estorsione che il loro ufficio spesso implicava. Evidentemente Matteo invita Gesù e i discepoli a una cena a casa sua (cf. Lc 5,29). Altri esattori delle tasse (cf. Mt 5,46), probabilmente amici e colleghi di Matteo, sono invitati alla cena insieme a Gesù e ai suoi discepoli (cf. 11,19; 18,17). Dal punto di vista di quei farisei che, scandalizzati, criticano le frequentazioni di Gesù, il termine “peccatori” (Mt 9,11.13; 11,19; 26,45; cf. Mc 2,14-22; Lc 5,27-39) designava non solo chi vivesse nell’empietà, ma anche chi non osservava i precetti della Bibbia ebraica (cf. 15,2) su questioni quali la purezza rituale, le leggi alimentari e l’osservanza del sabato. I farisei mai avrebbero potuto partecipare a un cena come quella imbandita da Matteo: la condivisione di una stessa tavola al tempo di Gesù implicava una comunione più profonda.

La domanda dei farisei, “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”, è perciò un’esplicita accusa al comportamento di Gesù. La sua risposta si fonda sulla comune associazione del peccato alla malattia (cf. 8,16-17; 9,1-8); metaforicamente parlando, i peccatori sono dei “malati” e hanno bisogno di un “medico”. Gesù è attento all’umanità di ogni persona che incontra, guarda l’attesa profonda e la sete di vita e verità che la abita, non si lascia scandalizzare dal peccato; al contrario, mostra come il peccato sia spesso il prodotto di strutture malate, che giudicano ed escludono intere categorie di persone. La misericordia verso ogni uomo e ogni donna – quella misericordia che chiede il profeta Osea, contrapponendola al sacrificio cultuale – è anche il giudizio di Dio sulle pratiche perverse degli uomini, che si ammantano di giustizia ma rendono schiavi coloro che le praticano. 

Solo la misericordia di Dio ci rende liberi, ci rende veramente figli.

fratel Adalberto


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