Sulla barca con Gesù
Matteo rilegge in chiave ecclesiale e cristologica l’episodio della tempesta sedata. La barca è la chiesa chiamata ad attraversare il mare della vicenda umana, acque avverse da spaventare al punto da sentirsi perduti. Un “grande sconvolgimento”, un risveglio della coscienza alla consapevolezza che la fedeltà a Gesù e al suo vangelo possono costituire un segno di contraddizione da generare avversione e persecuzione fino alla condanna a morte.
La vita del discepolo, quando tesa all’autenticità, non è una tranquilla gita al lago. L’evangelista da un lato registra una situazione di disagio dovuta al fatto che il mondo né riconosce né accoglie quelli di Gesù, d’altro lato sottolinea non l’assenza di Gesù (è con i discepoli sulla barca), ma il suo esserci come se non ci fosse: dorme. Gesù è una presenza assente.
Perseguitati e soli. Posto in questa morsa, al discepolo di Gesù non resta come via d’uscita che la preghiera del disperato: svegliati, salvaci, siamo perduti, non tradire la tua promessa: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo!” (Mt 28,18). Una esperienza ecclesiale e personale di ieri, oggi e domani con la grande domanda: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7).
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Ed entra in scena il risvegliato la cui prima preoccupazione non è in Matteo il calmare le onde, ma il mettere a fuoco la fede dei discepoli: “Perché avete paura, gente di poca fede?”. Gesù non li rimprovera di assenza di fede, si rivolgono infatti a lui per essere salvati, ma “di poca fede”, ne è prova il persistere della paura. L’esodo dalla poca fede a una grande fede è dato dal passaggio dalla agitazione alla tranquillità, dalla paura al coraggio affidati in piena fiducia al “pastore e custode delle vostre anime” (1Pt 2,25) da non temere chi uccide il corpo: non sono costoro infatti la parola ultima sul destino ultimo dell’uomo (cf. Mt 10,28).
È dato, come risulta dall’insieme neotestamentario, dalla fedeltà a un particolare statuto di comportamento mentale e pratico nel tempo della prova, della tribolazione, a cominciare dal sapere in anticipo (cf. Mt 5,11-12): Gesù ha preavvisato i suoi che seguire lui e il suo vangelo è un segno di contraddizione da non escludere l’eventualità tutt’altro che remota della persecuzione. A cui segue il non preoccuparsi della difesa – il cosa dire sarà suggerito al momento dallo Spirito (cf. Mt 10,19-20) – e l’assenza di paura per la propria sorte (Mt 10,28).
Il tutto nella nonviolenza e nella dolcezza (cf. Rm 12,14.17; 1Pt 3,13-16), nella gioia (cf. Lc 6,22-23; At 5,41; Gc 1,2) e nella preghiera: “Liberaci dal male” (Mt 6,13), dal non cedere alla tentazione del perdere fiducia, speranza e amore nell’ora della prova. Nella certezza che nessuna tribolazione potrà separarci dall’amore di Cristo (Rm 8,35).
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“E ci fu grande bonaccia… Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?”. È il Risorto che dimora nella barca chiesa e in ciascuno, che trova riposo nel cuore ecclesiale e personale, che rende padroni di sé nell’agitazione; con lui anche la tempesta diventa bonaccia, risurrezione a vita nuova – amare chi ti fa tribolare – e a vita eterna.
Chi ti uccide, magari pensando di rendere gloria a Dio, non sa che la sua arma è chiave che apre all’eterno: “Rallegratevi quando vi perseguiteranno…grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12). Ancora una volta ricondotti al cuore dell’esperienza cristiana: vale la pena vivere e morire per Lui e il suo Vangelo.
fratel Giancarlo
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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