Vegliare per ritornare a essere umani
Il rombo fragoroso e a tratti foriero di paura e angoscia del discorso escatologico di Gesù si chiude non con un crescendo finale, come ci aspetteremmo in una sinfonia roboante, ma in un calando che riprende il tema principale di tutto l’evangelo: la venuta del Figlio dell’uomo, e con note delicate di pazienza ci conduce a vivere l’attesa nella vigilanza e nella preghiera.
La paura e l’angoscia per gli avvenimenti ultimi narrati in questo capitolo, culminano nell’esortazione a vegliare, a esser desti e non assopiti. Il cuore si può appesantire in un processo di ingrassamento di sé stesso che gli impedisce di pulsare agevolmente. Il processo che lo porta ad essere pesante è dovuto, come scrive Luca, alle dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita. Come il grano seminato che cade nei rovi e nelle spine o in mezzo ai sassi o addirittura sulla strada e non riesce a germinare e portare frutto (cf. Lc 8,14).
Il seme della parola è stato seminato e narrato lungo tutto l’evangelo, passo dopo passo seguendo Gesù. Altro non ci è dato di contemplare se non la Parola fatta carne che ha posto la sua tenda tra di noi (Gv 1,18) in Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe secondo la legge e al contempo figlio di Dio.
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Le sue parole, i suoi detti, le parabole che ha narrato, sono seme gettato a piene mani ovunque, in ogni direzione, verso tutta l’umanità nessuno escluso.
Nella descrizione dei tempi ultimi il seme è giunto a ognuna e ognuno di noi: allora verrà alla luce ciò che portiamo nei cuori. L’accoglienza di Gesù precede e segue l’accoglienza dell’umano, in ogni sembianza si presenti, soprattutto là dove è più piccolo, fragile, povero, indifeso o ferito.
L’attesa del figlio dell’uomo è costante e perseverante esercizio del cuore affinché resti capace di riconoscerlo quando verrà sotto sembianze che non sappiamo e che al contempo però abbiamo già incontrato nella nostra vita: ero affamato, assetato, straniero, malato, carcerato (cf. Mt 25,35-36). Sembianze che abbiamo di fronte ai nostri giorni ogni attimo e declinate come “ero ostaggio”, “ero violata”, “ero uccisa”, “ero in un campo profughi”, “ero in balia delle onde in mare”, “ero sotto il sole nel deserto”.
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Il giorno del figlio dell’uomo arriverà come un laccio, all’improvviso, teso e robusto, non ci sarà tempo per futili discorsi di convenienza, negazionisti o di giustificazione.
Il laccio viene lanciato, rotea nell’aria e accalappia la preda che cade a terra, non c’è tempo per altro: solo il vegliare ci salva dall’avere un cuore grasso e benpensante tronfio di noi stessi che diviene incapace di far circolare il sangue della vita. Solo la preghiera, solo lo stare desti e presenti a noi stessi ci aiuta a sfuggire da tutto questo, per rimanere umani capaci di umanità, esseri che riconoscono chi hanno di fronte come essere da rispettare e accogliere.
Dopo questo discorso Gesù si avvia verso la passione con la decisione e la determinazione del figlio dell’uomo che è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto.
Le porte si aprono all’avvento, non possiamo programmarlo. Ci invita a vegliare, a vigliare, ci invita ad attendere la venuta del Messia nella preghiera, per restare desti e presenti a noi stessi, affinché ritorniamo ad essere umani, nulla più: ritornare ad essere umani, il resto è da Dio, l’Emmanuele il Dio con noi.
fratel Michele
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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