Gesù sta entrando a Gerusalemme, meta del suo cammino in mezzo all’umanità sofferente. Egli è passato facendo del bene e guarendo, e ora la sua qualità messianica si manifesta nel suo ingresso profetico nella città. La folla lo acclama Veniente, Re nel nome del Signore, egli è il Messia principe della pace.
Ma, subito dopo questi eventi, alla vista della città santa Gesù piange su di essa.
Scendendo dal Monte degli ulivi, dal luogo chiamato “Dominus Flevit” in ricordo di quest’evento, si può ammirare tutta la città vecchia di Gerusalemme, e là dove oggi vediamo la spianata delle moschee sorgeva il maestoso tempio di Erode. I discepoli richiamano l’attenzione di Gesù sulle enormi pietre che ancora oggi si possono contemplare nel Muro occidentale.
Gesù piange sulla città: “Se avessi conosciuto anche tu in questo giorno ciò che porta alla pace” (v. 42). Il suo pianto è un controcanto al salmo 122 che i pellegrini cantavano salendo al tempio: “Pregate per la pace di Gerusalemme, sia pace a chi ti ama! Sia pace all’interno delle tue mura” (Sal 122,6-7).
Qual è dunque questa via della pace? Ma soprattutto chiediamoci qual è la pace vera di cui Gesù sta parlando.
Il suo agire e il suo parlare si inscrivono nel solco della tradizione profetica. Geremia aveva messo in guardia il popolo contro i falsi profeti che annunciavano: “Pace, pace! Ma pace non c’è” (Ger 6,14), e contro l’illusione di chi faceva affidamento sulla maestosità del tempio e così si riteneva salvato dicendo: “Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo!” (Ger 7,4).
In Gesù questa parola diventa giudizio, compimento della profezia di Simeone: “Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, come segno di contraddizione” (Lc 2,34).
La contraddizione tra un conoscere e un non conoscere, di chi non sa discernere il giorno del Signore e un tempo, il tempo opportuno, il kairos, l’oggi della nostra vita in cui il Signore ci visita.
La strada che porta alla pace è stata nascosta ai nostri occhi, perché è cammino da percorrere nel nostro cuore, dove, come insegna la tradizione monastica, si combatte una guerra incessante e il nostro tesoro è continuamente posto sotto assedio.
La pace non è fare affidamento sulle nostre autoaffermazioni, sulla grandezza delle nostre realizzazioni, siano esse edifici o comunità o opere di qualsiasi altro genere sia pure belle e buone.
La pace non è conquista, ma cammino dietro a colui che è entrato a Gerusalemme come Messia mite e umile di cuore, a dorso di un asino.
Non è parola, ma essere, non è affermazione, ma ascolto e accoglienza dell’altro.
La pace non è possesso, ma desiderio di continuare a camminare insieme su una strada illuminata dalla follia della croce di Cristo.
Perché il desiderio di pace è follia, come scrive Alda Merini:
“Far camminare un bimbo è cosa semplice
Tremendo è portare gli uomini verso la pace
Essi accontentano la morte per ogni dove
Come fosse una bocca da sfamare”.
È follia in un mondo in cui costruiamo muri sempre più alti nelle città, tra i paesi, muri di incomprensione e incomunicabilità nelle nostre comunità, la pace è un desiderio di follia, ma per noi questa follia ha un nome: Gesù il Cristo, colui che è la nostra pace.
fratel Nimal
Puoi ricevere il commento al Vangelo del Monastero di Bose quotidianamente cliccando qui