Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 18 Settembre 2021

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La parola di Dio non può fare a meno di un ascoltatore attento e amante: è questo forse uno dei messaggi che ci consegna il vangelo di oggi. L’esperienza infatti insegna che la parola è per metà di chi parla e per metà di chi ascolta. Quali sono dunque le disposizioni per ascoltare bene la Parola?

Un primo elemento: impariamo solo da chi amiamo. L’amore ci rende più disposti all’ascolto, più essenziali, più ricettivi verso le voci che ci raggiungono, perché più liberati dal girare su noi stessi. Bisogna inoltre coltivare il proprio orto interiore per accogliere la parola di Dio, essendo capaci di amore. Nell’interpretazione della parabola del seminatore i terreni che non producono nulla sono proprio quelli per niente o poco lavorati: la strada, la pietra, le spine che soffocano i germogli… Superficialità; instabilità; mancanza di quella profondità che rende saldi nel momento della prova, perché le nostre scelte non dipendono dall’esterno ma da noi; l’essere invasi da più realtà che seducono, affascinano, distraggono, facendo perdere il senso di quel che è vero e soffocando la parola; l’esibizionismo e l’ostentazione della fede, che cela una povertà o un’inconsistenza interiori… L’ascolto della parola di Dio domanda questa cura personale del terreno che ciascuno e ciascuna di noi è. Un lavoro agricolo interiore! Come?

Piace fare uno sviluppo forse un po’ stravagante nella lettura del brano. Normalmente si pensa alla parola di Dio come qualcosa contenuto in un testo. Nel vangelo invece è la parola di un essere umano, Gesù. Sappiamo che Gesù è la Parola che illumina ogni essere umano che viene al mondo (Gv 1,9). Per questa illuminazione interiore ciascun essere umano può divenire per l’altro una parola che si riceve da Dio e l’altro può trasformarsi nel terreno in cui questa parola deposta germogli.

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Così la parabola e la sua spiegazione raccontano quel che accade in questo incontro. Quando la parola che l’altro è ci raggiunge pure in modo maldestro e infelice, può nascere in noi il processo dell’ascolto. Esso svela in noi la nostra mancanza di empatia, la nostra insensibilità. Se continua a fare il suo lavoro manifesta la fragilità del nostro ascolto, la nostra fatica a portare il peso dell’altro. Rivela poi quanto il nostro ascolto che vorrebbe custodire l’unicità dell’altro sia in realtà distratto, preso dal canto di tante sirene.

Il terreno buono che risulta alla fine non è un quarto terreno che si aggiunge agli altri dall’esterno e si distingue da essi. In realtà è l’unico e medesimo terreno che è stato lavorato da questo ascolto. La parola che l’altro è proprio nel trarre a galla le resistenze, le ferite e le impossibilità del nostro ascoltare rende possibile fare qualcosa di esse. Così l’altro – e l’altro difficile in particolare – ci può insegnare a incontrare il nemico per tentare a incontrarsi come persone. E soprattutto nel lavoro di dissodamento e concimazione del terreno ci insegna l’importanza di disarmare l’aggressività accogliendola senza rimbalzarla specularmente sull’altro. Grazie all’altro diveniamo terreno buono!

fratel Davide


Fonte

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