Il racconto della vocazione di Levi è inserito in un contesto di guarigioni, e in fondo questo già dovrebbe suggerirci che le vocazioni che accogliamo nella nostra esistenza sono tutte occasioni di guarigione. Si pensi alla chiamata all’esistenza, alla vita. Se viviamo non è per un caso, non siamo frutto di una combinazione meccanica di elementi, di associazioni fortuite, ma abbiamo ricevuto una chiamata: qualcuno ci ha voluto, ha amato la nostra esistenza prima ancora che noi nascessimo. Ricordare questo è già guarigione, guarigione dal non senso, dal pensare che se perdiamo le persone amate, se perdiamo chi ci ama, perdiamo tutto. Siamo stati chiamati alla vita da Colui che ci ha amati per primo: “Sei tu che hai plasmato il mio profondo – dice il salmista a Dio –, mi hai tessuto nel grembo di mia madre” (Sal 139,13).
Ma poi, oltre alla vocazione alla vita, riceviamo altre vocazioni, altre chiamate. Qui c’è il racconto della chiamata di Levi. E anche la sua chiamata è in fondo una guarigione: guarigione dall’isolamento e dalla barriera che quell’uomo aveva dovuto costruirsi inevitabilmente per praticare un mestiere odiato dalla gente. Perché era un pubblicano, un funzionario incaricato di riscuotere le tasse imperiali, e quindi era considerato dai concittadini un collaborazionista, e associato ai peccatori. Gesù, con una sola parola, restituisce a quest’uomo la libertà di essere semplicemente se stesso, un uomo bisognoso, come tutti, di contatto e di comunione con gli altri, desideroso, come tutti, di essere accettato e accolto.
E questa nuova dinamica nella quale Levi entra si esprime a meraviglia in un pasto. Gesù e i suoi discepoli mangiano a casa di Levi, alla stessa tavola con pubblicani e peccatori. “Erano molti infatti quelli che lo seguivano”: questi “molti” sono i discepoli, certo, ma forse anche i peccatori e i pubblicani, che hanno trovato in Gesù uno che li accoglie e accetta per quello che sono, tant’è vero che accetta di mangiare alla loro tavola!
E ora la tavola: “Noi uomini non ci nutriamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme” (Plutarco). Insieme, perché non abbiamo bisogno solo di cibo, ma anche di parole, abbiamo bisogno della presenza fisica degli altri attorno a noi per crescere: crescere nell’amicizia, nella fiducia, per guarire. Mangiare insieme è un’arte che esige umiltà: la comunicazione e la condivisione che si vivono a tavola non nascono da un “di più’’, da un “troppo’’, da un “pieno’’ – condizione, questa, dei farisei, che appunto non si sanno mettere in comunicazione e non sono aperti alla condivisione –, ma da un “vuoto’’, dalla coscienza di una mancanza, di un bisogno: abbiamo bisogno l’uno dell’altro, ed esprimiamo questo bisogno riconoscendo che siamo sempre debitori e dipendenti da altri per la nostra vita.
Siamo “malati” che anelano alla guarigione, direbbe Gesù, e non “sani” autosufficienti. Siamo “ciechi”, tutti, ma alcuni coscienti di non vedere, altri che negano la propria cecità (cf. Gv 9). Tutti chiamati, invitati a un banchetto, a patto di riconoscere di non essere migliori degli altri, a patto di accettare di essere guariti.
sorella Laura
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