Il testo evangelico odierno contiene un messaggio molto chiaro, rivolto a una comunità che conosce la persecuzione: non temete quelli che uccidono il corpo. E ricorda che di fronte alla violenza e alla sopraffazione l’avere in sé il timore del Signore è forza e consolazione. La tradizione patristica lega questo testo al martirio. “Così prega la voce dei martiri: Dal timore del nemico libera l’anima mia (Sal 63,2 LXX). Non perché il nemico non mi uccida, ma perché io non tema il nemico che uccide. Nel salmo il servo prega che si adempia ciò che nel Vangelo ordina il Signore: Non temete coloro che uccidono il corpo. Liberami dal timore del nemico, e sottomettimi al tuo timore” (Agostino, Esposizioni sui Salmi, 63.2 ).
“Guardatevi!”: letteralmente “fate attenzione a voi stessi”. Vigilanza e forza sono necessarie per accedere a quel timore del Signore che la Scrittura qualifica come puro (Sal 19,10), principio della sapienza (Sal 111,10) e della conoscenza (Pr 1,7), timore che permette di vincere la paura della morte violenta facendo entrare il credente nell’intimità di Dio e facendogli conoscere la sua custodia.
“Dico a voi, amici miei” precisa Luca al v. 4, e questa è l’unica volta nei sinottici in cui i discepoli sono chiamati amici. Amici, perché anch’essi associati alla passione che attende Gesù.
Al v. 5 Luca inserisce un’indicazione temporale – “dopo l’uccidere”. Il contesto e la grammatica sembrano suggerire la lettura: “temete colui che, dopo che quelli – gli avversari – hanno ucciso,ha il potere di gettare nella Geenna”. Il ricordo del giudizio finale porta consolazione: tutto sarà svelato, tutto reso manifesto, nessun povero, nessun dolore, nessuna vittima saranno dimenticati.
A questo punto si pone però una domanda, perché, se è vero che il credente trova forza nella certezza della giustizia di Dio, noi in fondo non conosciamo mai pienamente il nostro cuore. Gesù dice di non temere quelli che uccidono il corpo e insieme mette in guardia contro la corruzione interiore che porta alla vera perdita, all’essere gettati nella Geenna. Luca precisa che questo principio di corruzione (lievito) è l’ipocrisia. Tale termine non è rilevante nella tradizione biblica, dove è assimilato all’empietà, ma è ripreso dalla tradizione rabbinica e caratterizzato come “il suo interno non è come il suo esterno”. Ciò corrisponde al linguaggio dei vangeli. Nel nostro testo, dopo aver nominato l’ipocrisia, Luca parla di ciò che è segreto e sarà conosciuto, di ciò che è nascosto e sarà svelato. Ma chi conosce veramente ciò che è dentro? Alle volte noi per primi inganniamo noi stessi, coprendo i nostri desideri con azioni rispettabili, predicando agli altri ciò che è l’opposto della nostra verità interiore. Si può compiere il male, molto male, senza averne piena consapevolezza, in una completa distanza fra ciò che è dentro e ciò che è fuori.
“Vigilate su voi stessi”, invita Gesù. Tutte le tradizioni insegnano a chiedere perdono per i peccati nascosti. Nella divina liturgia di san Giacomo si prega prima della comunione: “Togli, rimetti, perdona, o Dio, ogni colpa volontaria e involontaria, cosciente e non cosciente”. Che il Signore ci conceda parresia e umiltà e ci illumini mentre cerchiamo di adeguare il nostro interno e il nostro esterno al suo insegnamento e alla sua chiamata.
sorella Raffaela
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