“Si seppe che era in casa” (v. 1). Gesù conosce l’umana consolazione di un luogo familiare, spazio di riposo e intimità. Un luogo raccolto ma non chiuso, custodito ma non isolato: la casa è davvero tale quando si apre per accogliere, quando non teme di farsi ospite di volti e di voci. Per Marco è proprio una casa come tante, con le sue dinamiche di vita quotidiana, il luogo in cui si manifesta la salvezza di Dio: non il tempio, non la sinagoga, ma lo spazio in cui si vivono gli affetti, l’amicizia, la fraternità; in cui insieme si fa festa e insieme si piange; in cui agli scontri seguono le riconciliazioni; in cui, al calar del silenzio, quando si rimane soli, si custodiscono interiormente le persone ospitate.
Grazie alla presenza di Gesù, in una casa come tante risuona la parola di Dio: “parlava la Parola”, dice alla lettera il versetto 2. È una Parola dalla straordinaria forza attrattiva, capace ⎯ quando incontra la fiducia umana ⎯ di abbattere gli ostacoli e trasformare la realtà: la fede nella Parola dona coraggio, determinazione, creatività. Così quattro uomini anonimi, silenziosi e risoluti, non temono di scoperchiare il tetto pur di portare il paralitico a Gesù: hanno l’audacia di chi ama davvero e, per il bene dell’amato, sfida l’impossibile e spera l’insperabile. È un gesto di amore potente: vi riecheggia la potenza stessa della Parola. È un gesto che richiama la responsabilità del credente: portare incessantemente a Gesù i fratelli e le sorelle. Portarli animati da un solo desiderio: che abbiano vita. I quattro uomini non dicono nulla, non fanno richieste, ma il loro gesto esprime quella che è, forse, l’autentica preghiera di intercessione: “Signore, che mio fratello, mia sorella, viva!”.
Marco non riporta il contenuto della predicazione di Gesù, ce lo rivela attraverso l’incontro con il paralitico: il cuore dell’annuncio altro non è che il perdono dei peccati. Perdono che, rendendo figli (cf. v. 5), svela la vera natura del peccato: esso è rifiuto, allontanamento, uscita dalla relazione di amore con il Padre. La parola potente di Gesù riconduce all’interno del rapporto filiale e così libera la vita dell’uomo da quanto la paralizza e le impedisce piena fioritura. “I tuoi peccati ti sono perdonati” (v. 5b) significa “che ciò che ti asservisce, la storia disgraziata che ti precede e della quale non puoi disfarti non avrà l’ultima parola su di te!” (É. Cuvillier).
Il perdono sana l’uomo, lo rimette in piedi, in cammino, e gli ridona autonomia. Questa realtà, che è innanzitutto interiore ed esistenziale, si fa visibile nella guarigione esteriore del paralitico, a ricordarci la forte unità della persona umana. Entrato in casa grazie ad altri e in posizione orizzontale, l’uomo ne può uscire da solo, eretto, portando sotto braccio la barella: il passato di infermità non si può cancellare, ma lo si può portare con sé come un bagaglio che non intralcia il cammino. Fonte di guarigione, il perdono genera anche alla libertà: Gesù non lega a sé l’uomo, ma lo rimanda a casa sua. È nella quotidianità della sua esistenza, in quella casa segno degli affetti e degli impegni di ogni giorno, che egli deve vivere da perdonato e sanato, ovvero da figlio di Dio.
sorella Chiara
Puoi ricevere il commento al Vangelo del Monastero di Bose quotidianamente cliccando qui