Oggi facciamo memoria di Mattia, discepolo di Cristo chiamato a integrare il collegio apostolico dopo il tradimento e la morte di Giuda. Il vangelo che ascoltiamo in questa memoria ci svela il dono e l’impegno di cui Mattia è fatto partecipe, dono e impegno offerti anche a ciascuno di noi.
Gesù è seduto a mensa con i suoi nell’imminenza della passione, e dopo averli invitati a restare come tralci in lui, vite vera (cf. 15,1-8), spiega loro che cosa significhi portare molto frutto e diventare suoi discepoli.
Rimanere come un tralcio nella vite vuol dire restare nell’amore che Gesù ha raccontato con la sua vita, un amore che viene dal Padre, che ci precede e che esprime il desiderio divino di gioia piena per ogni essere umano. Il discepolo è quindi innanzitutto invitato a credere la presenza di questo amore preveniente nella realtà quotidiana, a discernere i segni della sua azione e a sentirsi chiamato alla gioia: non la sofferenza ma la gioia è opera di Dio!
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Gesù ci ha narrato un amore fondato su concreti atti di cura, espressione del dono della propria vita a favore della vita piena di chi è stato riconosciuto e accolto come prossimo. Si tratta di un dono che supera le categorie della simpatia e dell’antipatia, dell’appartenenza familiare o etnica o religiosa, per affermare il criterio della custodia di qualsiasi essere umano come fonte di un’esistenza ricca di senso, di pace, di gioia. Soprattutto Gesù ci ha raccontato un amore che non chiede il contraccambio, un amore che non va restituito a chi lo dona, ma va esteso riversandolo gli uni sugli altri: l’amore del discepolo per Cristo si concretizza solo attraverso il bene per i fratelli e le sorelle in umanità. Entrare nella logica di questo amore, allora, significa essere, al pari di Gesù, uomini e donne “in uscita”, cioè disposti a fare il primo passo verso l’altro, anche quando la via del dialogo e dell’incontro è aspra o, addirittura, appare chiusa. Inoltre, significa liberarsi dall’attesa che l’amore dato ricada su di noi per entrare nella gioia di chi vede l’amore donato correre e dilatarsi in un orizzonte sempre più ampio di scambi e di relazioni fraterne.
Per amare come Gesù ha amato occorre fare memoria di lui, del modo in cui ha abitato le strade e i villaggi del suo tempo, dei gesti che ha compiuto e delle parole che ha pronunciato: bisogna cioè donare tempo alla parola del vangelo, prendere quella confidenza con essa che ci fa sentire il dono dell’amicizia. Non siamo più servi ma amici perché, grazie alla Parola, Gesù ci introduce nell’intimità con il Padre. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (v. 16). Fare memoria di Gesù significa anche ricordare il momento in cui abbiamo preso coscienza di essere stati da lui scelti per seguirlo sulla via dell’amore: il ricordo di quella chiamata, infatti, è memoria viva e vivificante dell’amore preveniente, gratuito e immeritato di Dio; è memoria che ci sostiene quando la vita sembra contraddire la promessa della gioia; è memoria che, al cuore dei fallimenti delle nostre umane vicende, ci invita a non temere: anche oggi il Signore ci previene e ci chiama “amici”.
sorella Chiara
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