Gesù provocatore! Invitato a pranzo da un religioso osservante, non rispetta le regole: prima dei pasti si fanno le abluzioni, forse non una completa immersione, come suggerirebbe il verbo greco, ma almeno ci si lava le mani. Gesù invece passa oltre e, senza aspettare, si mette a tavola. Atteggiamento che suscita naturalmente la meraviglia del religioso che però non dice nulla. Allora Gesù – che ora è “il Signore” – rincara la dose e attacca: “Voi, farisei … stolti …”.
È improbabile che Luca scriva una cronaca reale di ciò che accadde. Certo, Gesù era un uomo libero, poteva anche essere duro di fronte alla gente, ma fino a questo punto, sembra difficile. Allora perché questo racconto?
Due stranezze di questo brevissimo brano ci possono forse orientare. Dopo aver rimproverato ai farisei di pulire solo l’esterno del bicchiere, Gesù non continua parlando dell’interno del bicchiere che sarebbe pieno di marciume, bensì del “vostro interno pieno di avidità e di cattiveria” (v. 39). Oppone quindi curiosamente all’esterno del bicchiere l’interno dei farisei!
La seconda stranezza sta nell’ultimo versetto, quando Gesù indica ai farisei che devono piuttosto dare “in elemosina quello che c’è dentro” (v. 41). Ma come dare in elemosina ciò che abbiamo dentro, le nostre viscere?
Gesù gioca evidentemente su due piani. I farisei – come descritti da Luca – sono molto attenti alle questioni di purità legale, Gesù invece si interessa alle persone nella loro verità, cioè alla coerenza tra ciò che uno è e ciò che fa vedere di sé. Per questa ragione passa dall’esterno del bicchiere all’interno del cuore, dal piano rituale a quello esistenziale.
Problema vecchio quanto la dimensione religiosa dell’essere umano, e dunque problema appiccicato alla nostra stessa natura umana, perché tutti siamo religiosi – anche l’ateo, l’agnostico o il “laico” puro e duro –; ognuno infatti adora qualcuno o qualcosa, fosse anche solo il proprio “io”; questa è, tra l’altro, la peggiore delle religioni.
Allora quel fariseo non rappresenta il movimento farisaico; è la cifra di ognuno di noi. Ciò che ci minaccia è l’ipocrisia, qualificata da Gesù come “stoltezza”, perché consiste nel farsi passare per altro da ciò che si è, nel giocare un ruolo e credere nel contempo – qui sta la stupidità – che né gli uomini né Dio se ne renderanno conto! L’apparenza è bella, ma la realtà non lo è affatto. Formalmente si rispettano le regole di Dio, della chiesa o della società, il diritto canonico, le rubriche liturgiche, le prescrizioni, le convenzioni cittadine; tutto sembra a posto, ma è solo una facciata che maschera il vuoto della nostra vita interiore.
In queste condizioni il nostro “interno” non è pieno di amore, ma di avidità, e dunque di ricchezze di ogni tipo. Ecco ciò che occorre “dare in elemosina”: restituire ai poveri ciò che di fatto si è loro rubato, come fece Zaccheo quando accolse Gesù dicendo: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8).
fratel Daniel
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