Marco non ci narra un miracolo di guarigione, ma un miracolo di incontro: fuori dei confini di Israele un rabbi e una donna pagana acconsentono a un dialogo e a una reciproca comprensione che li trasformano, guarendo e portando a pienezza la vita. Se il miracolo avviene è perché entrambi sono “in uscita”, aperti al rischio dell’ignoto: Gesù lascia la propria terra e quei vincoli di purità sui quali ha appena avuto un’accesa discussione con i farisei, per dimorare su un suolo estraneo e impuro; la donna lascia le proprie credenze per cercare guarigione in un altrove, in un diverso che viene da lontano. Stranieri l’uno all’altra, Gesù e la donna si incontrano oltre la paura dell’alterità e la presunzione di essere nel giusto: è così che la vita vince l’avanzare della morte e conosce piena fioritura.
Tuttavia – e questo ci sconcerta – vero protagonista e artefice del miracolo non è Gesù ma la donna, che con la sua risposta spiazzante genera il proprio interlocutore a una nuova comprensione di sé e della propria missione. Senza nome e segnata da una triplice impurità poiché femmina, pagana e alle prese con uno spirito impuro, questa donna è però madre: autenticamente madre per la capacità di dare alla luce vita in un altro da sé. Ed è umilmente sapiente: riconoscendo la verità di quanto Gesù le dice – la salvezza è innanzitutto offerta a Israele –, ella aderisce alla realtà che le è dato di vivere e crea così lo spazio di una relazione franca, trasparente. Uno spazio di autenticità in cui la donna conduce Gesù a un altro punto di vista sulle cose, poiché non esiste una lettura assoluta della realtà, bensì una lettura in dialogo con sguardi altri. E dal punto di vista della donna, da sotto il tavolo riservato ai cani, si può vedere che c’è pane per tutti, che, senza togliere bocconi a Israele, anche i pagani possono nutrirsi della salvezza di Dio.
All’umile sapienza della donna risponde un altrettanto umile discernimento di Gesù, che si lascia lavorare dalla parola ricevuta. La grandezza di Gesù, però, non consiste solo nel lasciarsi guidare e correggere dalla donna, accettando di ricevere da lei la verità della propria esistenza, ma pure nella capacità di scrutare oltre le parole per discernere ciò che le ha generate: un profondo atto di fede. È “questa parola”, dice Gesù, a consentire la guarigione della figlia, ovvero la parola con cui, riconoscendo il proprio posto e accogliendolo senza pretese, la donna ha riposto tutta la sua fiducia e speranza in quel rabbi, nel sentire in grande del suo cuore, nel suo essere lì, oltre i confini.
Gesù e la donna. Marco non poteva mettere in scena due personaggi tanto lontani e, nello stesso tempo, vicini. Accomunati dal desiderio di andare oltre se stessi e dalla capacità di ascoltare fino al cambiamento di sé, essi stanno davanti a noi come maestri di umanità, esempi della difficile arte di farsi plasmare da ogni incontro con intelligenza e semplicità. Arte che sembra richiedere soprattutto due condizioni: la fiducia in chi ci sta davanti, nel suo essere qualcosa di molto più grande di un’appartenenza etnica o religiosa, di una condizione giudicata pura o impura; una risposta affidabile, in cui quella fiducia possa mettere radici.
sorella Chiara
Puoi ricevere il commento al Vangelo del Monastero di Bose quotidianamente cliccando qui