Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 12 Settembre 2020

Queste parole di Gesù sono un invito all’ascolto vero che qualifica il discepolo: “chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica” (Lc 6,47): movimento verso Gesù, ascolto, obbedienza che si traduce nel fare quello che la parola dice. Solo chi si lascia trasformare dalla parola che ascolta e la compie è un discepolo ben preparato che “sarà come il suo maestro” (Lc 6,40), in grado cioè di insegnare portando giovamento al prossimo, a differenza delle guide cieche. Infatti (come dice il testo greco al v. 43) ogni albero buono produce frutto buono, ogni casa solidamente fondata resiste alla tempesta. Anche se si parla di frutto (esteriore) l’attenzione è posta nella profondità intima e nascosta che produce il frutto e ciò è ribadito nelle immagini che seguono: il tesoro del cuore, da cui sovrabbonda ciò che la bocca dice, e le fondamenta – la parte nascosta – su cui poggia la casa rimandano alla realtà interiore e profonda, al mistero più proprio del nostro essere, che spesso neanche noi conosciamo pienamente. 

Mi sembra che il testo suggerisca che c’è in fondoun’interscambiabilità tra fondamenta e frutto: ciò che ci fonda è il risultato di un lavorio in noi cui, in qualche modo, acconsentiamo e per il quale ci affatichiamo; il frutto dell’ascolto diventa fondamento su cui poggiare in seguito. La stessa cosa mi sembra anche suggerita dalla ricorrenza di queste immagini nella letteratura antica, in particolare nella tradizione rabbinica e nei detti dei padri del deserto.

«Chiesero ad abba Agatone: “Che cos’è più importante, la fatica del corpo o la custodia interiore?”. L’anziano disse: “L’uomo è simile a un albero: la fatica del corpo sono le foglie, la custodia interiore è il frutto… tutto il nostro sforzo deve essere rivolto al frutto, cioè a custodire le profondità del nostro cuore. Ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie, che sono la fatica del corpo» (Agatone 8).

«Rabbi Eleazar ben Azarjà diceva: Chi ha una sapienza superiore alle sue opere, a che cosa è simile? A un albero con molti rami ma poche radici: appena viene il vento, lo sradica e lo capovolge… Ma chi ha opere superiori alla sua sapienza, a che cosa è simile? A un albero con pochi rami ma molte radici: anche se venissero tutti i venti del mondo a soffiargli contro, non lo smuoverebbero da dove sta» (Pirqè Avot III,21 [17]).

«Elisha ben Avujà dice: Un uomo che possieda opere buone e che abbia studiato molto la Torà, a che cosa è simile? A uno che costruisce prima con le pietre e poi con i mattoni: anche se venisse molta acqua e facesse pressione su di essi, non li smuoverebbe. Ma un uomo che non possieda opere buone, benché abbia studiato la Torà, a che cosa è simile? A uno che costruisce prima con i mattoni e poi con le pietre: basta che venga un po’ di acqua, e li fa subito crollare» (Avot di Rabbi Nathan, 24).

La vita monastica comprende se stessa come risposta a una chiamata e obbedienza al vangelo tradotta in una pratica. Come dice abba Agatone, tutto lo sforzo deve essere rivolto alla custodia delle profondità del cuore, pur accompagnato dalla fatica dell’ascesi, dello studio, del lavoro. Non c’è altro frutto cui aspirare, non c’è altro frutto che ci è chiesto. È un frutto e un dono: coltivare e custodire il giardino del nostro essere e della nostra libertà, delle nostre potenzialità e delle nostre relazioni (cf. Gen 2,15) perché il Signore faccia risplendere in noi la sua immagine e riveli nel suo e nostro mondo la luce della trasfigurazione.

sorella Raffaela


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