L’urgenza dell’essenziale
Luca lo scriba della mansuetudine di Cristo e il narratore della sua misericordia che nessuno esclude, fino a farsi perdono a chi l’uccide (cf. Lc 23,34), pone in bocca a Colui “che è passato facendo il bene” (At 10,38) parole dure come pietre, pungenti, i sei “guai a voi” (Lc 11,42.43.44.46.47.52), quattro dei quali nei pochi versetti del Vangelo di oggi. Un linguaggio che lascia interdetti e che domanda di essere capito. Urgono chiavi di lettura, la prima delle quali, decisiva, va proprio individuata nel forte e appassionato amore di Gesù il mansueto.
Questi “guai” sono capitoli o atti di una misericordia non arresa, disposta a cercare e lasciarsi cercare, a incontrare e lasciarsi incontrare dai più accaniti oppositori al suo messaggio, non temendo l’uso della provocazione verbale come unica risorsa rimasta a risvegliare coscienze addormentate e cuori pietrificati.
Tra i più ostinati a una presenza e a una parola che “chiamano oltre”, verso orizzonti di religiosità alta e pura, puntuale non manca la serie di quanti si ritengono a posto, giusti, perbene, non bisognosi di cambiare mente e stili di vita, uno stato di durezza che solo parole forti, concise e taglienti come spada possono sperare di infrangere.
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È a costoro che Gesù si rivolge con un vocabolo che dà ragione a quanto detto sin’ora: ouai, che include simultaneamente i concetti di dolore, “ahimè”, e di minaccia, “guai”, l’amore della madre che minaccia il figlio unicamente preoccupata della sua salvezza… Nel brano evangelico il più “grande di Salomone e di Giona” (cf. Lc 11,31-32) si rattrista e duole dinanzi a una situazione incancrenita, il suo èil lamento di dolore dell’amante, e nel suo quello del Padre, di fronte a inguaiati prigionieri dell’illusione della propria giustizia, ottusi nel loro non aprirsi al messaggio liberante di Gesù.
È proprio di chi ama sino a patirne il coraggio di parole forti fuori dall’ordinario unicamente tese alla correzione: “perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio” (Eb 12,5-6). Il “guai a voi” di Gesù corrisponde dunque a un atto di amore in parole uguali a “spada a doppio taglio” (Eb 4,12), in obbedienza al suo essere segno di contraddizione “venuto a svelare i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35).
Gesù ama il fariseo che lo ha invitato a pranzo (cf. Lc 11,37) e quel dottore della Legge che si sente offeso di quanto Gesù ha detto al fariseo (cf. Lc 11,45). Fariseo e dottore della Legge, altra sottolineatura da apporre e da leggersi non in chiave antifarisaica e antigiudaica ma come paradigma di un poter-essere umano di ogni luogo e tempo, religioso e non solo, un poter-essere che si distingue per due caratteristiche: “presume di essere giusto-nientifica gli altri” (S. Fausti), ma una giustizia senza misericordia scambia la luce con la tenebra, rende farisei nel senso etimologico, cioè “separati” e giudici. È ciò che ancora manca al fratello maggiore della parabola: il passaggio dal ciò che è giusto da lui operato al riconoscimento nella tenerezza del fratello minore perduto e fallito, ingiusto.
È alla luce di queste precisazioni che vanno letti i versetti 42-46 del capitolo 11 del Vangelo di oggi. Gesù con tutto l’amore di cui è capace, visibile nel pianto sulla città amata che non comprende e non accoglie (cf. Lc 19,1), mette in guardia i suoi interlocutori e noi dichiarando che è un guaio di non poco conto l’essere invischiati in una religiosità formale, esteriore e padrona. Una religiosità che di fatto “lascia da parte la giustizia e l’amore di Dio” (Lc 11,42), centrata sull’osservanza scrupolosa delle prescrizioni (cf. Dt 14,22-23), comprese quelle non richieste, come il pagare la decima per la ruta; sull’apparire, sull’autoaffermazione personale tramite la corsa ai primi posti e al plauso della piazza; sul potere, sul divenire tramite la conoscenza della legge e della tradizione imposta agli altri controllori delle coscienze altrui con un sistema di precetti e di interpretazioni che i dottori della legge non toccano neppure con un dito. Una simile religiosità, indice di un interno “pieno di avidità e cattiveria” (Lc 11,39), è un guaio per chi la frequenta e da essa Gesù, a cui è data “la chiave della conoscenza” (Lc 11,52) secondo Dio, intende liberare riconducendo le cose all’essenziale.
“Religione pura e senza macchia davanti a Dio” (Gc 1,27) è data dalla giustizia e dall’amore di Dio (cf. Lc 11,42), dall’accoglienza e dal compimento di ciò che è giusto davanti a Dio: amare Colui che ci ama, pienamente in Gesù, cioè Dio (cf. Dt 6,4), e amare coloro che Dio ci dona come fratelli e sorelle (cf. Lv 19,8), alla maniera di Gesù in mitezza e umiltà liberando da ogni peso che non sia quello dolce e leggero dell’amore (cf. Mt 11, 28-30). Oltre ogni dissimulazione, ogni scissione esterno-interno (cf. Lc 11,40), il corpo racconti l’amore che abita il suo cuore, per non essere sepolcri che generano contaminazione e morte, anche se all’apparenza sembra il contrario (cf. Lc 11,44), ma lampade che trasmettono luce (cf. Lc 11,33-36). Urge il camminare insieme verso l’essenzialità.
fratel Giancarlo
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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