“Amate i vostri nemici” (vv. 27.35): l’imperativo che Gesù ci rivolge a due riprese nel brano evangelico odierno va contro la nostra comprensione immediata della giustizia. È una parola dura! Eppure costituisce il cuore dell’evangelo: segna l’originalità assoluta del messaggio di Gesù nei confronti di ogni etica religiosa o filosofica tradizionale. Spezza la logica della reciprocità, sia nel bene (amare solo coloro che ci amano), sia nel male (rispondere mimeticamente al male subito).
Ma piuttosto che guardare alla durezza dell’appello che contiene, cerchiamo di scorgervi la buona notizia: potremmo definire “nonviolenza attiva” l’atteggiamento al quale ci chiama. Si tratta di non rispondere alla mancanza di rispetto che l’altro ci rivolge, adoperando una reazione di benevolenza preveniente.
Si pone un primo problema: il testo stesso che meditiamo oggi pare un’aggressione fatta a noi. Non ci sentiamo forse noi stessi attaccati dalle richieste che ci indirizza? Quando ci viene detto di fare (o di non fare) una cosa, questo suscita in noi resistenza. “Lasciami in pace”, vorremmo rispondere, “faccio quello che voglio…”. Ci sembra di essere costretti, di non potere essere quello che ci sentiamo di essere. Però, tale invito contiene in realtà una grande libertà per la nostra vita.
“A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra” (v. 29): quel consiglio appare ingenuo. Non è sufficiente che io sia vittima? Devo ancora umiliarmi di più?
Nell’offesa, due reazioni spontanee si presentano a noi: rispondere con tutte le forze, con i fatti o con le parole; oppure lamentarsi, abbassare il capo e scappare via. Entrambe tuttavia sono reazioni deboli. Non colpire invece, o non sottrarsi, indica al contrario il grande potere che questa occasione ci regala.
Non rispondere infatti è l’unico modo per non diventare a nostra volta carnefici; e non fuggire di fronte all’aggressore rappresenta la sola via per non accettare il ruolo di vittima che la controparte ci vuole assegnare. Questa “nonviolenza attiva” ci permette di rimanere chi siamo in verità, al di là di quello che l’altro vorrebbe fare di noi. Indica la nostra libertà e la nostra fedeltà a noi stessi. La nostra identità invero non dipende da chi abbiamo di fronte, né da ciò che ci viene inflitto.
Rispondendo all’odio con l’odio, maledicendo chi ci maledice, non cambieremmo nulla; anzi moltiplicheremmo solo la violenza che subiamo. Allo stesso modo, fuggendo la persona che ci infligge il male, rinforzeremmo solo la prepotenza dell’aggressore e confermeremmo la nostra posizione di vittima. Invece stando fermi, obbligando l’altro a riconoscere quanto sta commettendo, compiamo l’attacco più determinante: spingiamo l’altro a riconoscere la nostra dignità, e di riflesso anche la sua.
Certo, una tale “nonviolenza attiva” può portare a conseguenze funeste, se l’altro non si ravvede. Gesù stesso ne ha mostrato l’esito estremo umiliandosi in tal modo fino alla morte di croce. Ma così facendo ha aperto a noi la strada della vita e della promessa suprema: diventare “figli dell’Altissimo”, imitatori di quel Dio che offre la sua grazia a tutti e rimane benevolo anche “verso gli ingrati e i malvagi” (v. 35).
fratel Matthias
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