Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 10 Luglio 2020

Gesù, nel suo camminare per i villaggi della Galilea e della Giudea, posava il suo sguardo sulla natura che lo circondava. Gesù amava molto guardare le greggi, spesso ci parla di pecore, di pastori, e anche nel primo versetto di oggi ci richiama a essere pecore, anche se nel contesto in cui si pascola ci possono essere dei lupi: bisogna continuare a essere pecore, sempre!

Ci esorta poi alla prudenza dei serpenti e alla semplicità delle colombe. Sorella Maria di Campello invita ad accrescere la comunione con la natura e con tutte le creature: “Dilatate il vostro cuore. Anche fisicamente avete bisogno dell’aria libera, della bellezza che è attorno … io tengo andiate all’aperto … se io sapessi che una passa quella mezz’ora contemplando l’azzurro del mare o osservando una fogliolina o una farfalla mi basterebbe perché siete in silenzio, siamo insieme e abbiamo attorno la vita, che c’è di più sacro?”.

L’invito a essere come pecore è perché Gesù sa che nel cammino si incontrano avversità e inimicizia, che si dovrà rendere conto della propria fede; e anche qui l’esortazione è a non preoccuparsi di “come” e di “cosa” dire, perché lo Spirito santo ci donerà intelligenza e parole “in quell’ora”, al momento opportuno. Avversità e inimicizia non arrivano solo dal contesto sociale, dalle autorità civili e religiose, ma anche da quelli della propria casa: fratello e padre, figli e genitori. Gesù mette in guardia il suo discepolo sulle asperità della sequela: è inevitabile, è intrinseco nel cammino incontrarle. Contraddizioni, incomprensioni, visioni diverse, contrapposizioni, fino a persecuzioni devono essere messe in conto dal discepolo che deve perseverare fino alla fine. Nulla deve distogliere dall’essenziale, dal nucleo della nostra fede e della nostra sequela: il Signore Gesù, morto e risorto, il Pastore grande delle pecore.

Il Signore non ci risparmia dal dolore e dalla sofferenza; in quei momenti una domanda deve abitarci: “Questo dolore che vivo mi fa male o mi fa bene?”. Il dolore fa bene quando è un dolore che non ci rende più cattivi, che non alimenta il rancore e ci fa reagire con rabbia; bensì è un dolore che apre a una comprensione più grande, a una comunione più vera e ci rende più solidali nel peccato e nella sofferenza. È sempre il “come” che fa la differenza nel vissuto e che trasforma quello che ci raggiunge, anche di male e di dolore; siamo chiamati a vivere in obbedienza anche quando ciò che viviamo non è facile da accogliere e accettare.

“Tante cose belle e tante cose difficili, e quelle difficili si sono trasformate in belle ogni volta che ero disposta a sopportarle. Ho imparato che un peso può essere convertito in bene se lo si sopporta” (Etty Hillesum).

“Dove c’è speranza, non c’è sconfitta anche se c’è grande fragilità, grande miseria e desolazione, grande clamore pieno di paura; la vittoria è già percepibile. Questo è il mistero della sofferenza nella chiesa e nella vita cristiana: è proprio il portale con la scritta ‘abbandona la speranza’, il portale della sofferenza, della catastrofe e della morte, che si trasforma per noi nel portale della gloria e dello splendore” (D. Bonhoeffer).

sorella Roberta


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