Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 1 Ottobre 2021

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Nel contesto del discorso rivolto ai settantadue discepoli inviati in missione, Gesù li avverte dell’eventualità che il loro annuncio incontri il rifiuto. Inviati “come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3), essi non devono sorprendersene. L’annuncio evangelico infatti è fatto in totale debolezza, per lasciare sempre libero il destinatario di accoglierlo o di rifiutarlo. Del resto, i discepoli devono ricordarsi che prima di loro il rifiuto è toccato a Gesù stesso: “Il discepolo non è da più del maestro” (Mt 10,24). 

Traendo spunto di qui Gesù pronuncia una parola di giudizio sulle città che hanno rifiutato il suo annuncio: Corazim, Betsaida e Cafarnao. Sono le città in cui ha predicato più spesso e con maggiore intensità, compiendo a larghe mani segni e “opere potenti” che annunciavano la venuta del regno di Dio. Esse hanno visto e udito, eppure non si sono aperte all’evangelo.

Al di là di ogni apparenza, qui Gesù non minaccia, né condanna né maledice nessuno. Le sue parole sono anzitutto un compianto e una forma estrema di richiamo alla conversione. L’espressione “guai”, che riprende una formula profetica, traduce un’esclamazione, impregnata di pietà e insieme di tristezza (ouai, in greco; hoy in ebraico) che potremmo forse rendere meglio con “ahimé!”. Le parole di Gesù sono certamente severe, ma egli è il primo a percepire un dolore infinito per l’infelice prospettiva che si apre di fronte a chi ha scelto vie di morte, come quando si lamenta alla vista di Gerusalemme, che ha ormai rifiutato di lasciarsi “raccogliere sotto le sue ali” e non ha riconosciuto la “via della pace” che le è stata offerta (cf. Lc 13,34-35; 19,41-44). “L’amore non amato non minaccia. Non può che lamentarsi e morire di passione” (S. Fausti).

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Corazin e Betsaida sono paragonate a Tiro e Sidone, città simbolo dell’idolatria e dell’ingiustizia, già tante volte denunciate dai profeti (cf. Is 23; Ez 26-28). La prospettiva ipotetica del loro pentimento cui si allude è paradossale, ma la storia mostra che talora proprio i più lontani da Dio sono i più recettivi nei confronti del messaggio della salvezza. Ed è ciò che avvenne a Ninive, dove alla predicazione di Giona gli abitanti si pentirono “vestendosi di sacco e coprendosi di cenere” (cf. Gn 3,7-8). Gesù si riferirà di nuovo a questo caso in termini espliciti in Luca 11,32. I più lontani si rivelano dunque come i più vicini alla conversione, e i più vicini come i più lontani. Proprio come quando Gesù dice ai farisei: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio!” (Mt 21,31).

Cafarnao come nessun’altra città della Galilea era stata il teatro della predicazione di Gesù, era la città dove abitavano i primi discepoli e la città dei primi miracoli, tanto che addirittura gli abitanti di Nazaret ne erano gelosi: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria!” (Lc 4,23). Eppure Cafarnao ha disprezzato la predicazione di Gesù come cosa da poco, forse proprio per averla sotto gli occhi tutti i giorni! Lo udivano senza più ascoltare e lo guardavano senza più vedere.

Tutto questo ci dice che per il vangelo nessuno ha titoli di prelazione nei confronti di Gesù, né legami di sangue, né di vicinanza fisica né di cultura. Tutto dipende dalla capacità di lasciarsi effettivamente convertire da lui e di mettere in pratica la sua parola. Il discorso, prima ancora che coloro che sono fuori della chiesa, riguarda direttamente noi che ci consideriamo “dentro”. Fino a quando continueremo a sprecare le occasioni innumerevoli che il Signore ci offre per ascoltare la sua parola che ci richiama alla vita? Che cosa deve fare ancora per noi che non abbia già fatto? 

Un monaco di Bose


Fonte

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