Beati, come Gesù
Nel giorno in cui la Chiesa ci invita a fare memoria di tutti i Santi, riascoltiamo il Vangelo delle Beatitudini. Tutti i Santi del cielo e della terra, tutti chiamati a santità, a divenire riverbero delle energie della Resurrezione del Signore Gesù.
È Gesù che con fare solenne sale sul monte e inizia a insegnare, a fare segno ai suoi discepoli e a chiunque desideri mettersi alla sua sequela. Il suo fare segno è un’indicazione di beatitudine, di felicità, di pienezza. E questo in situazioni che ben poco hanno a che vedere con tutto ciò, in situazioni che così spesso somigliano alle nostre quotidianità, vicine e lontane, di aneliti di pace in intemperie bellicose, devastanti. Proprio in queste Gesù di Nazaret osa pronunciare parole che restano scolpite nella nostra memoria, e che potremmo sentire sempre più nostre.
Sono proposte di felicità, quelle di Gesù, proposte che radicano nel presente aprendo allo stesso tempo a un futuro di speranza, verso il compimento nel regno di Dio. Gesù non promette che oggi non ci sarà più la sofferenza ma mostra con sguardo sicuro e pacifico un modo “altro” di vivere, e chiede di fidarsi di lui, perché lui stesso si fa garante di questo modo di vivere, lui stesso ne è il compimento.
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Le beatitudini, nella loro pregnanza, non possono essere lette solo come testo poetico, morale o sapienziale: descrivono atteggiamenti vissuti da Gesù e, perciò, devono diventare lo stile dei discepoli di ogni tempo, ricordando che ci si incammina verso un “linguaggio della croce” (1Cor 1,18) che confonde ogni sapienza umana.
“Potremmo dire che la parola ‘beati’ costituisce un’antropologia, una descrizione di che cosa sia davvero l’uomo felice, vero, autentico” (C. M. Martini), che si realizza innanzitutto nella persona di Gesù, colui che ci ha narrato Dio (cf. Gv 1,18).
“Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza. Per Gesù è un presente: oggi i poveri sono beati. E la ragione è una sola, fondamentale: la gioia del regno arrivato” (B. Maggioni), ed è questo a sovvertire già ora i valori comuni.
Il regno di Dio annunciato da Gesù si rende prossimo nella sua stessa persona, nel suo guarire e insegnare, nel dischiudere nell’oggi il ribaltamento delle sorti, nel suo stare con gli uomini (Dio-con-noi).
Le beatitudini erano valide al tempo di Gesù, nella sua persona trovavano compimento, e restano un appello negli orecchi di chi cerca di mettersi in ascolto ancora oggi, poiché continuano a smuoverci dalle nostre sicurezze, a interpellarci: “Cristiani, sapete di essere felici? E, se non lo siete, le beatitudini vi obbligano a chiedervi perché Gesù vuole fare dei suoi discepoli persone felici; non concepisce che si possa essere discepoli suoi senza essere felici” (J. Dupont).
Ma di quale felicità si tratta? Nella dinamica pasquale possiamo scorgere una chiave di senso nell’attraversare anche le mancanze o gli eccessi di sofferenza, con una speranza riposta nelle sue parole di vita, aderendo all’oggi e insieme protesi al domani, a un’eternità in cui la morte non ha l’ultima parola, in cui il regno di Dio sarà tutto in tutti.
“Il regno significa il bene di tutti i beni, la somma dei desideri, delle attese e delle promesse di Dio. È un capovolgimento che Dio fa del regno dell’uomo […]. È l’oggetto primo della preghiera al Padre, come dono da invocare (11,2b), perché il ‘regno di Dio’ è ‘di Dio’: è la luce della sua misericordia, della sua giustizia e della sua pace. È Gesù stesso, che in sé lo ha pienamente compiuto attraverso il mistero della croce dove è stato vinto il male” (S. Fausti, Luca, 168).
Eppure dovremmo domandarci: ma noi lo lasciamo regnare nelle nostre vite? Ci rendiamo conto di essere oggetto dell’azione di Dio proprio nel nostro essere nel bisogno, proprio nelle nostre ferite?
Certo, occorre uno sguardo di fede per intendere questo invito, questa promessa del regno, occorre guardare a come Gesù stesso ha vissuto, lui che “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). E noi sappiamo imparare dalla persona di Gesù? Sappiamo lasciarci impregnare dai suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) tanto da diventarne riverbero?
Μακάριοι: così irrompe la prima beatitudine, della quale le successive sembrano essere uno sviluppo e un ampliamento. La motivazione risiede nel presente: ὅτι ὑμετέρα ἐστὶν ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ. La buona notizia annunciata da Gesù è che ai poveri è promesso il regno, la comunione con Dio: occorre rendersi conto di essere beati, di essere oggetto dell’azione di Dio, occorre riconoscersi poveri, come Gesù. Con questa beatitudine di apertura si traccia “una via per i poveri quali primi clienti di diritto della parola del Signore, lui che ‘insegna ai poveri la sua via’ (Sal 25,9)”. Chi sono però questi poveri? Nell’Antico e nel Nuovo Testamento sono quanti gridano a Dio nella consapevolezza della loro condizione di bisogno (sebbene questa non sia condizione sufficiente per tale apertura a Dio), come emerge ripetutamente dalla voce del salmista, fiducioso che “il Signore libera il povero che grida” (Sal 72,12). “Il vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli non parlano esplicitamente della povertà, ma trattano dei poveri”, qui dichiarati beati non a causa della loro povertà, poveri verso i quali è chiesta generosità (cf. ad es. il dovere dell’elemosina in Lc 11,41; 12,33) perché sia alleviata la sofferenza di chi giace nel bisogno: la povertà non risulta un ideale in sé, ma rimanda a un’esigenza di carità fraterna, si declina come condivisione. Nell’AT si conosce un’evoluzione del concetto di povertà da maledizione e punizione, lontananza da Dio a privilegio della sollecitudine di Dio.
“come una traduzione concreta del messaggio centrale di Gesù: ‘Il regno di Dio è vicino’”, che riguarda innanzitutto i poveri “in quanto consentono a Dio di manifestare le sue disposizioni verso di loro e la sollecitudine di cui li circonda, in forza dell’idea che egli ha della sua funzione regale”. Questa angolazione “teologica”, per riprendere ancora le parole di Jacques Dupont, “ha ceduto ben presto il passo a una reinterpretazione ‘antropologica’”, per cui l’attenzione si polarizza “sulla condotta che gli uomini devono seguire per aver parte ai benefici del regno”, a una retribuzione, una ricompensa escatologica. Strettamente legata a questa sottolineatura “antropologica”, non si può dimenticare la portata “cristologica”: la buona notizia è annunciata da Gesù con parole accompagnate dal suo comportamento verso i poveri di ogni genere, da gesti che ne esplicitano il senso, la portata, e appare più evidente che la beatitudine è dischiusa dalla conformazione a Cristo (non riposa nella sofferenza in sé). Sembra che questa “sia la cristallizzazione di numerose esperienze fatte nel corso della storia dai primi cristiani, che hanno verificato come la loro sorte si trovasse spesso di fatto conformata a quella del loro Signore”, codificata negli annunci della Passione e nel kerygma apostolico (cf. 1Cor 15,3-5).
Le beatitudini si concludono con un rimando ai profeti: anche in passato i profeti sono sempre stati perseguitati perché non si è riconosciuto in loro la voce di Dio, l’avvertimento a convertirsi, a tornare a lui, perché lo sguardo di Dio può mettere in questione il presente e dar fastidio. L’ultima beatitudine affonda le radici nel presente e lì si sviluppa: ogni volta che siete osteggiati, allora rallegratevi!
sorella Silvia
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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