Giorno denso quel giorno. L’evangelista Marco aveva raccontato di come Gesù aveva chiamato a sé quelli che egli volle perché “stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14).
Quella sera, dopo aver lungamente annunciato il Regno di Dio con parabole, Gesù invita a cambiare prospettiva: “Passiamo all’altra riva”. A volte occorre fermarsi, respirare, darsi tempo per sperimentare un altro punto di vista. Cambiare prospettiva può voler dire sospendere il già noto, fare un passo, o voltarsi. Cambiare prospettiva può voler dire allargarla, o lasciare che sia illuminata da diverse angolature, nelle sfumature o nei crepacci difficili da scorgere, nelle aperture smisurate. Nelle risonanze di eco antiche e nuove.
Qui Gesù si allontana dalla folla. Resta con i suoi, con le barche di quegli uomini con cui provava a cercare il Regno di Dio. “In disparte, ai suoi, spiegava ogni cosa”: così si legge appena prima del nostro racconto. Così si conclude l’insegnamento in parabole. Forse l’andare in disparte con i suoi voleva essere un momento per rendere più chiare le sue parole? Non sappiamo. Leggiamo che Gesù chiede di avanzare, chiede di fare un “salto”. Proprio mentre la luce del giorno viene meno. E così anche le forze: Gesù viene preso “così com’era” e si addormenta al posto del timoniere. Marco annota, quasi a rendere plastica la stanchezza infinita, che “dormiva sul cuscino”.
Ed ecco che alle tenebre incipienti si aggiungono i flutti del mare: nell’immaginario biblico evocano le potenze del male, quella forza indomita e ingovernabile che toglie il fiato, che attenta alla vita.
La barca è piena d’acqua e i discepoli si rivolgono urlanti a Gesù, àncora di salvezza. Gesù, quasi risorgendo, ha una parola ferma ed efficace: mette a tacere l’irruenza del mare. Riecheggiano i canti del salmista:
“Tu domini l’orgoglio del mare
E plachi le sue ondate tempestose” (Sal 89,10).
“Più della voce di acque impetuose
Più potente dei flutti del mare
È potente nell’alto il Signore” (Sal 93,4).
E ancora, molto in linea con quel che accade ai discepoli:
“Nella sventura gridano al Signore
Li libera dalle loro angosce,
riduce la tempesta al silenzio,
ridà la calma alle onde del mare,
si rallegrano al vederle tranquille,
li conduce al porto sospirato” (Sal 107,28-30).
Esperienza dello stare con il Signore è poter scorgere la bonaccia, se solo si osa rivolgersi a lui, a lui solo che, con modi e tempi spesso a noi oscuri, può salvare. Stare con il Signore ci mantiene in vita. Pur con tutte le nostre paure. Pur con la nostra mancanza di fede.
Lasciamoci raggiungere, come i discepoli, dalla domanda di Gesù: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. Da dove vengono le nostre paure? In chi poniamo la nostra fede-fiducia?
I discepoli, “presi da grande timore”, si confrontano tra loro sull’identità di Gesù, sulla possibilità di trovare salvezza, una salvezza che è vita condivisa, una salvezza suscitata e riconosciuta nel dialogo, nello stare insieme, con il Signore e tra loro.
sorella Silvia
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