Pace e bene,
questa domenica lasciamoci consolare e illuminare dalla “tempesta sedata”.
Non dimentichiamolo: il Signore non ci abbandona, ma ci viene incontro proprio nella tempesta, per trarci a se, per trarci in salvo, aiutandoci a crescere anche per mezzo della tempesta…
L’episodio del Vangelo di oggi è chiaro e molto profondo. Proviamo a calarlo nella nostra vita. Gesù ha appena moltiplicato i pani e, congedata la folla, si ritira su un monte a pregare. Inoltre “costringe” i discepoli a salire sulla barca e precederlo sull’altra riva. Lungo la traversata, ecco la tempesta. La barca, distante molte miglia da terra, era agitata dalle onde. Matteo per esprimerlo usa il verbo basanizō, che significa “affliggere, disturbare”, e che l’evangelista aveva usato precedentemente per indicare il tormento di una malattia (cf Mt 8,6.29).
Così è in fondo la nostra vita. Essa è come una grande traversata dalla sponda della mortalità a quella dell’eternità. Navighiamo nel mondo, su quel mare a volte sereno a volte burrascoso, quel mare che nella tradizione biblica era anche simbolo delle forze caotiche. In effetti, siamo spesso sballottati da difficoltà, da sofferenze, da problemi, alle prese con confusione e turbamento…
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Ma non solo: è anche immagine della Chiesa, di quella “barca” che naviga sulle acque del mondo, anch’essa spesso sbattuta da peccati e scandali interni e da persecuzioni esterne. Essa naviga, a volte imbarcando acqua, ma naviga sicura, perché…
Gesù va incontro ai discepoli. Siamo tra le tre e le sei del mattino. Dunque non interviene subito. Permette che la tempesta infuri, che i discepoli ce la mettano tutta. A quel punto, quando tutto sembra inutile, eccolo sopraggiungere camminando sulle acque. Chissà quante volte l’avremo sperimentato. Dio non ci salva dalla tempesta ma nella tempesta, e non subito, ma nel momento giusto, quando siamo pronti e disposti ad accoglierlo, quando quell’incontro può segnare una svolta nella nostra vita.
I discepoli inizialmente non lo riconoscono, lo scambiano per un fantasma. Anche noi tante volte non sappiamo riconoscere la presenza del Signore accanto a noi, scambiando lucciole per lanterne, grazie per casualità, provvidenza per coincidenza… Gesù li invita a non temere, auto-presentandosi con la formula «egō eimi/ sono io», che richiama “l’Io sono colui che sono”, nome con il quale Dio si presentò a Mosè nell’Antico Testamento.
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Pietro, come conferma dell’identità di Gesù, chiede come segno di poter camminare anch’egli sulle acque. Gesù glielo accorda, e Pietro vi cammina! Ma poi, come distoglie gli occhi dal Signore, fissandoli sulla tempesta, ecco che paura e angoscia prendono il sopravvento e Pietro inizia ad affondare, gridando al Signore che prontamente lo trae in salvo. Pietro incarna il discepolo dalla fede immatura, che nelle difficoltà non si fida totalmente del Signore, ma tiene lo sguardo più sui problemi che su di Lui… Poca fede e dubbio sono i tarli che accompagnano Pietro e gli altri, tarli che in varia misura potrebbero essere presenti anche nella nostra vita.
Appena saliti sulla barca, la tempesta cessa e i discepoli, prostratisi in adorazione, proclamano la loro fede in Gesù. È difficile dire che cos’è che li porta alla confessione di fede: la sua capacità di camminare sulle acque? Il fatto che l’abbia permesso a Pietro? Il suo potere di salvarlo? La facoltà di far cessare il vento? Forse tutto insieme? Di certo è la presenza di Gesù, la potenza della sua parola, l’esperienza della sua salvezza nella tempesta che aiuta i discepoli a superare dubbi e paure, maturando nella loro fede. Che il Signore ci doni la grazia di vivere e sperimentare tutto ciò anche nella nostra vita!