Il volto di ogni vero discepolo deve essere come quello del Verbo incarnato che spogliò se stesso della gloria divina per assumere la condizione di servo, umiliandosi fino alla morte di croce (cfr. Fil 2,6-8). La vera umiltà è rara a trovarsi perché pochi guardano diritto in faccia a Gesù Cristo. L’umile non è e non sarà mai un arrivato, un realizzato secondo i criteri umani, poiché l’umiltà non può essere l’esito di una bravura, il frutto di una conquista. Il vero umile non sa di esserlo; tutto pervaso di santo timor di Dio – cosciente del proprio nulla – sta come un povero che si sente soltanto in debito con il suo Signore; è come un tapino a cui non bastano mai le parole e le forze per scusarsi di quello che è e per rendere grazie di quello che riceve.
Il segreto che conduce all’umiltà sta nel non vivere più per se stessi, ma per il Signore e nel Signore. Sta nel sapersi rinnegare davvero, senza ostentazione e retorica, senza affettazione e convenzionalismi, ma con naturalezza e semplicità. Il concreto vivere quotidiano è il banco di prova. Infatti, se non si rimane nell’ideale astratto ma si va alle situazioni reali della vita, ci si accorge che non vi è un solo aspetto della propria esistenza quotidiana che non debba essere sottoposto al crogiuolo della purificazione attraverso l’accettazione di ciò che ci ridimensiona e ci mette al nostro giusto posto, nell’umiltà.
L’umile ama avvolgersi di silenzio. Tace di se stesso per dare tutto il posto a Dio. È consapevole del niente che è, e desideroso di conoscere quello che è chiamato a divenire in Cristo. Non c’è, del resto, nessuno che possa ragionevolmente considerarsi migliore degli altri e ritenersi in possesso di buoni titoli di merito prescindendo dall’esperienza della misericordia di Dio. Ogni dignità ha la sua radice nel sacrificio redentore di Cristo.
A.M. CANOPI, Nel mistero della gratuità, Milano 1998, 62-67, passim