I francesi che invasero Milano nel 1499 rappresentarono un grave pericolo per il capolavoro di Leonardo da Vinci realizzato in città: parliamo dell’’Ultima Cena dipinta nel refettorio di Santa Maria delle Grazie. Racconta Paolo Giovio nella sua breve biografia di Leonardo che il re di Francia Luigi XII, dopo essere entrato vittorioso in città, si fece condurre al refettorio delle Grazie e rimase ammutolito di fronte al capolavoro leonardesco. Poi, si riprese dallo stupore e fece agli astanti una domanda agghiacciante: “E’ possibile staccare il dipinto e portarlo in Francia?”. Molte fonti attribuiscono questa frase al successore Francesco I. Poco importa: quel che conta è che, grazie a Dio, in un caso o nell’altro, alla regale domanda venne risposto fermamente di no.
I contemporanei si accorsero invece, e con trepidazione, che l’Ultima Cena delle Grazie cominciava a “guastarse” a vista d’occhio. La tecnica di esecuzione sperimentata da Leonardo – che non è il buon fresco fiorentino ma una pittura murale a olio – e la spaventosa umidità che impregnava i muri dell’ambiente stavano velocemente “ammalorando” il dipinto. I copisti si misero al lavoro fin dal 1503 per riprodurre il dipinto ma il degrado nessuno riuscì a fermarlo, come ci confermano testimoni illustri, da Giorgio Vasari al Cardinale Federico Borromeo.
[ads2]Nel 1652 accadde nel Cenacolo un fatto gravissimo. Sotto l’Ultima Cena si apriva una minuscola porticina di collegamento tra il refettorio e la retrostante cucina. Bene, il priore in carica ordinò di ampliare quella porta per dare maggiore eleganza e tono all’ambiente, che era stato appena rinnovato con nuovi tavoli e nuovi sedili. Il fatto che quel varco si sarebbe alzato ben oltre i piedi di Gesù seduto a tavola, e quindi avrebbe comportato il sacrificio di un’ampia porzione di pittura, sembrò non allarmare nessuno. I muratori eseguirono gli ordini senza discutere: armati di mazzuoli e martelli fecero velocemente a pezzi i piedi e le gambe di Cristo e trasformarono in polvere e calcinacci anche le gambe dei due Apostoli seduti accanto a Nostro Signore. Dei piedi del Salvatore ci resterà, d’ora in avanti, solo il ricordo nei bellissimi disegni preparatori che Leonardo aveva riservato a questo dettaglio secondario. Secondo Giuseppe Bossi, l’urto delle martellate inferte dagli energumeni alla base del dipinto provocò anche la caduta di altre parti della superficie pittorica, già rese precarie dal generale cattivo stato di conservazione dell’opera. Ad ogni buon conto, alla terribile lacuna inferta sulla parete del Cenacolo dalle martellate del 1652 non sarà mai più possibile porre rimedio.
Nel Settecento si tentò di arginare il degrado del dipinto chiamando restauratori come Michelangelo Bellotti (1726) e Giuseppe Mazza (1770) che però, a detta dei contemporanei, provocarono più danni che benefici. Racconta Carlo Bianconi (1787) che la superficie era stata “lavata con corrosivi” (sic!) e poi ridipinta “per farla apparire come nuova”. A leggere queste testimonianze il sangue si raggela, tuttavia non si possono imputare troppe colpe a questi involontari aguzzini di Leonardo, perché essi altro non fecero che utilizzare le tecniche di restauro conosciute e praticate allora, tecniche che, ahinoi, erano estremamente e pericolosamente molto primitive.
Molto più deprecabile fu, dal nostro punto di vista, il disinvolto vezzo di inchiodare senza riguardo al muro del refettorio le insegne imperiali austriache. Viaggiatori del Grand Tour come il Richardson ci testimoniano che gli stemmi erano così grandi e ingombranti da andare a coprire in parte la testa di Cristo. Comunque nulla, rispetto ai danni inferti al Cenacolo durante l’occupazione napoleonica. Nel 1796 le truppe del generale Bonaparte requisirono il convento delle Grazie per acquartierarsi. Napoleone in persona venne alle Grazie e, toccando con mano l’importanza del Cenacolo, ordinò che il refettorio venisse rispettato e non fosse trasformato in alloggio militare. Racconta Giuseppe Bossi (1810) che Napoleone sottoscrisse immediatamente il decreto prima di rimontare a cavallo, stando in piedi alla presenza del priore Porro e di altre persone e alzando il ginocchio per facilitare la firma del documento. Purtroppo il decreto napoleonico non venne rispettato. Di lì a poco, un graduato francese ordinò di levare le transenne di legno che proteggevano gli ingressi e permise ai soldati di rioccupare il refettorio. Fino al 1799 l’ambiente venne trasformato in stalla, in fienile e in magazzino. I vapori e i miasmi provocati da animali e derrate danneggiarono vistosamente il dipinto. Ma questo è niente: come se non bastasse si lasciò man libera ai soldati che entravano e uscivano dal Cenacolo di ammazzare il tempo con un deprecabile passatempo, quello di prendere a mattonate gli Apostoli di Leonardo da Vinci! Quei robusti colpi di mattone rimasero indelebilmente impressi sulla parete. Naturalmente ci fu chi gridò allo scandalo. Intervenne Giuliano Traballesi, intervenne Giuseppe Bossi, ovvero il gotha dell’intellighenzia artistica cittadina, e finalmente, nel 1800, l’amministrazione napoleonica prese drastici provvedimenti in materia. Ordinò addirittura di murare la porta del Cenacolo, cosicché, per vedere l’Ultima di Cena di Leonardo, era diventato necessario calarsi nel refettorio con una scala a pioli che scendeva dal pulpito dei frati.
Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Brera, considerò un’autentica sciocchezza l’aver murato l’ingresso del Cenacolo. Nel 1802 indirizzò una lettera al governo napoleonico nel quale chiese di demolire il muro, sostituendolo con una robusta porta in legno. A suo modo di vedere, l’unico modo di tutelare davvero il Cenacolo era di farne una sorta museo di se stesso: una porta e un portinaio pagato dallo Stato avrebbero assicurato la salvaguardia del luogo e anche la visione dell’ opera agli eruditi e agli “amatori da arte”. Oltre “ad emendare l’altrui barbarie e i danni dell’ ignoranza”, concluse Bossi, il provvedimento avrebbe portato ”onore alle arti antiche e animato le nuove”. Il governo, per fortuna, lo ascoltò e l’Ultima Cena non ebbe a subire altre ingiurie da parte dei francesi.