Quel meraviglioso stupore dei pastori
Al centro della scena del Natale i pastori occupano un posto importante. È tutta per loro una rivelazione stupenda – quel bambino adagiato nella mangiatoia è il Messia – e una teofania celeste di angeli. Questi uomini, certamente insieme alle loro donne, figlie e figli, stavano lavorando, stavano custodendo il loro gregge come tutte le notti. Non erano nel tempio, non stavano celebrando una festa religiosa. Stavano semplicemente facendo il loro lavoro, e lì furono raggiunti e travolti da una epifania, da un’irruzione del divino dentro la loro vita. Pochi luoghi sono più adatti di quelli del lavoro per ospitare angeli e messaggi divini.
Erano lavoratori, erano analfabeti, non conoscevano la teologia. Però sapevano le storie dei Patriarchi, di Mosè, di Davide, quelle raccontate tutte le sere attorno al fuoco; sapevano che il loro popolo dal Dio diverso aspettava da sempre un Messia, un Salvatore. E quindi lo aspettavano anche loro. Lo riconobbero perché non avevano smesso di aspettarlo. Lo riconobbero in quel bambino adagiato in una mangiatoia perché non avevano smarrito la fede in una salvezza.
Forse molti scribi e intellettuali di Gerusalemme non riconobbero il salvatore in quel bambino e poi nel Gesù adulto perché avevano smesso di credere che il Messia sarebbe arrivato. Ieri e oggi, la pre-condizione per riconoscere una salvezza è non aver smesso di credere che arriverà. I pastori furono salvati dalla loro semplicità, perché non avendo una loro idea complicata di come doveva essere il Messia credettero semplicemente all’annuncio degli angeli.
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