Finita l’esperienza nel movimento del Battista, Gesù dalla Giudea torna in Galilea, nel Nord, e va a vivere a Cafarnao. Dai Vangeli sappiamo che Cafarnao, non Nazaret, era la città dove Gesù aveva la sua casa («Gesù lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare», Mt 4,13). Il Battista viveva solitario nel deserto, Gesù invece vive in una città, che si trovava lungo le vie commerciali del Medio Oriente. E in quella città aveva la sua “casa” («entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa», Mc 2,1). In quella sua casa gli portarono un paralitico, e per la grande folla dovettero scoperchiare il tetto per farlo scendere dall’alto.
Anche Gesù, il glio dell’uomo che non ha dove posare il capo, aveva una casa. Probabilmente ci stava per poco, magari ci viveva insieme ad altri discepoli e apostoli, forse ci tornava solo per dormire e non tutte le sere. Certamente era una casa scoperchiata, una casa dove il tetto era troppo basso per poter contenere la sua vita.
Anche i profeti, anche quello più grande di tutti, così grande da non essere soltanto un profeta, ha una casa. Fa parte della condizione umana avere una casa, anche quando una voce ti chiama a lasciarla. Una casa che non è la tana delle volpi, neanche il nido degli uccelli. È soltanto una casa, che si usa senza possederla, che si abita senza diventarne padroni, che ha un tetto alto come il cielo, a cui vi si giunge per ripartire lungo le strade.
La prima immagine che Marco ci dona di Gesù tornato nella sua città è quella di un maestro che insegna. Gesù è stato ed è molte cose, ma è stato anche un maestro, un grande maestro. Chi lo ascoltava sentiva che era un maestro diverso, che non era come gli altri che conoscevano. Che maestro era? Dove si trovava la sua diversità? Non lo sappiamo, neanche i Vangeli sono sufcienti a farci rivivere la forza, il fascino, la bellezza di quell’insegnamento e di quelle parole.
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