L’etica cristiana davanti alla ricchezza
Questo brano, cui la tradizione ha dato il nome del “giovane ricco” – perché Matteo [19,22] parla di un giovane: Marco non dice che il “tale” fosse giovane – è una delle colonne (tra l’altro) dell’etica economica evangelica. È un testo molto ricco da diverse prospettive.
Innanzitutto, è un esempio di fallimento di una vocazione, che quindi dice che anche Gesù ha avuto i suoi “no” alla chiamata, a ricordarci che la vocazione è sempre un incontro di libertà, di chi chiama e di chi è chiamato. Inoltre, qui Marco ci rivela che cosa chiedeva Gesù a chi voleva entrare nella sua comunità.
Le vocazioni si muovevano su due piani o due livelli. Il primo livello è quello della Legge di Mosè: per ereditare la vita eterna, o per essere salvati, sarebbe sufficiente mettere in pratica i precetti della Legge. Fin qui Gesù, chiamato «maestro buono» (a dirci che la sua fama di maestro era molto cresciuta in Israele), non aggiunge precetti suoi e specifici a chi vuole la salvezza.
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Ma poi, colpito da qualcosa di non specificato di quell’uomo, sente di dovergli fare una proposta per accedere a un secondo livello della sequela, di entrare nella sua comunità nomade e pellegrina. Lo guarda, lo “ama” (lo “bacia”, come traducono alcuni codici latini), e gli fa la proposta più radicale: entrare in un’altra dimensione.
Dal dialogo col “giovane” e poi da quello con Pietro e i discepoli emerge con forza la natura della comunità di Gesù, della sua sequela. Nella folla affascinata dai suoi insegnamenti, la comunità “della via” di Gesù era un sottoinsieme, composta da chi “lasciava madre, padre… campi” per avere come ricompensa il centuplo su questa terra e poi la vita eterna. […]
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