Luigi Maria Epicoco – Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’apocalisse

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Copertina del libro di Luigi Maria Epicoco - Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’apocalisse

La vita umana, quando perde il suo fuoco, è destinata a diventare fredda come la morte. Questa nostra epoca pare aver smarrito il fuoco. Quando tutto smette di avere senso, l’unica cosa che sembra delinearsi davanti a noi è trovare qualcosa che ci distragga da questa assenza di significato.

Viviamo vite imprigionate in un eterno intrattenimento, ed è difficile dissentire da una società che pare ormai organizzata solo per creare esigenze di consumi e vendere. Ma se tutto questo a un tratto finisse? Se tutto il mondo che conosciamo crollasse lasciando solo macerie e rovine? Che ne sarebbe di noi?

Cormac McCarthy (1933-2023), tra i più grandi scrittori americani contemporanei, ha messo in scena un racconto nel suo romanzo “La strada” che conduce a un ribaltamento dello sguardo. Persino il padre protagonista del racconto di McCarthy nel suo pessimismo cosmico riesce a conservare al fondo di se stesso un desiderio di felicità. È la vita di quel figlio l’olio della sua fiamma, il combustibile vero del suo fuoco. Le persone felici sono quelle che hanno trovato il tesoro nascosto. Non hanno nulla, secondo la logica del mondo, ma hanno un motivo, un fuoco e per questo hanno tutto.

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Stralci dal libro…

“La nostra società ha paura di invecchiare: ma non è la decadenza del corpo ciò che dovrebbe preoccuparci, bensì il crescere della rassegnazione dentro di noi. Si può essere vecchi anche se si è anagraficamente giovani, e si può restare giovani anche se si è anagraficamente vecchi. La vera domanda riguarda le nostre attese, non il nostro corpo.
Se non c’è più nulla da attendere cosa rimane del presente?“ (pag. 10)

C’è troppo freddo nel cuore dell’uomo. E il freddo di una solitudine che, a macchia d’olio, sembra colpire molti uomini e donne dell’Occidente. Seppelliti dal consumismo, abbiamo fatto incetta di tanti beni materiali, ma non sappiamo più dove procurarci beni spirituali. E quando usiamo la parola «spirituale» non ci riferiamo a qualche sottoprodotto utile come antidolorifico per le nostre ferite psicologiche, ma a qualcosa che faccia da olio alla fiamma della passione per la vita, che dovrebbe essere il vero motore del mondo.
Se prima bastava sostare anche solo un attimo per riprendere fiato, ora ci rendiamo conto che, come umanità, stiamo sostando da molto tempo e non ritroviamo nessun ossigeno vitale. Le nostre riflessioni tendono a tenerci invischiati in una serie di ragionamenti che sembrano girare in circolo senza mai andare da nessuna parte.
Quando tutto smette di avere senso, l’unica cosa che sembra delinearsi davanti a noi è trovare qualcosa che ci distragga da questa assenza di significato. Viviamo vite imprigionate in un eterno intrattenimento, ed è difficile dissentire da una società che pare ormai organizzata solo per creare esigenze di consumi e vendere.
Ma se tutto questo a un tratto finisse? Se tutto il mondo che conosciamo crollasse lasciando solo macerie e rovine? Che ne sarebbe di noi? Quale strada ci toccherebbe prendere? Cormac McCarthy (1933-2023), tra i piú grandi scrittori americani contemporanei, ha messo in scena una simile ipotesi costringendoci a seguire un racconto che, piú che essere di natura descrittiva, conduce a un ribaltamento dello sguardo. È il romanzo 𝘓𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘥𝘢 (2006). (pp. 7-8)

“Se solo avessimo la percezione di quanto possa essere salvifica una parola messa al posto giusto, o un silenzio usato nel momento giusto. Se solo avessimo la percezione di quanto alcune parole feriscano a morte e alcuni silenzi pesino come macigni.
Molti di noi passano l’intera vita nel tentativo di disintossicarsi dalle parole sbagliate e di riempire silenzi colpevoli. Specialmente i bambini sono molto sensibili alla musica delle parole. Ne conoscono il peso perché per molto tempo tentano di pronunciarle nel modo giusto. Ma soprattutto le parole che ai bambini si rivolgono, e con cui vengono chiamati, lasciano in loro una traccia indelebile che gli farà compagnia per il resto della vita.
Abbiamo bisogno di sentirci addosso parole liberanti che sappiano dire la verità senza mai trasformarla in giudizio. Abbiamo bisogno di saperci ascoltati, perché il silenzio è lecito solo quando è ascolto e non quando è indifferenza. Le prime armi che dovremmo deporre sono quelle delle parole. Ogni pace si costruisce con la ricerca delle parole giuste.” (pp. 6-7)

“La vita umana è tale quando sa dare un nome alle cose, quando riesce a distinguerle dal caos, quando riesce a legarle a un significato.
È troppo poco piangere: abbiamo bisogno di poter dare un nome al nostro pianto, un nome che ne riveli il motivo, la radice. È troppo poco innamorarsi: abbiamo bisogno di dare un nome all’amore, abbiamo bisogno di poter avere chiaro dove si trova quel dettaglio che ci ha cambiato la vita.
«Nominare» è legare le cose a un significato. L’incapacità di nominare la realtà è l’incapacità di legarla a un senso. E proprio per questo motivo ci rendiamo sempre piú conto che il nostro parlare è uno scambio di informazioni, ma non è piú capacità di saper dare significato all’esperienza.” (pag. 5)

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