Luciano Manicardi – Il pane

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Il pane, nutrimento basilare dell’uomo mediterraneo, diviene il segno della cura che Dio ha per l’uomo e del suo amore sovrabbondante nel racconto in cui venti pani d’orzo, “secondo la parola del Signore” trasmessa dal profeta Eliseo, sfamano cento persone e ne avanza perfino (I lettura). Nel vangelo, cinque pani d’orzo e due pesci, mediante i gesti e le parole di Gesù, sfamano cinquemila persone e anche in questo caso avanza molto cibo. Più che di moltiplicazione, occorre parlare di condivisione e di dono.

L’iniziativa di sfamare le folle non viene dai discepoli (come nei sinottici), ma direttamente da Gesù. Non è motivata neppure dalla compassione nei confronti di folle stanche o smarrite (come in Mc 6,34; 8,2; Mt 15,32). Il gesto di Gesù è sovranamente gratuito: è un’azione, non una reazione. Nasce solo dal suo sguardo sulla folla in quel tempo prossimo alla Pasqua (cf. Gv 6,4). E così il gesto appare rivelativo: sia in rapporto al Dio che nella Pasqua compirà il suo amore sovrabbondante per l’uomo donando il suo stesso Figlio per la vita del mondo, sia in rapporto all’uomo e alla sua fame non dovuta a particolari circostanze, ma fondamentale, costitutiva. Questa fame non è una disgrazia, ma la verità umana ordinata alla verità di Dio che la precede e la fonda e che è il desiderio di Dio di consegnarsi all’uomo per aver comunione con lui e perché l’uomo abbia la vita in abbondanza.

Il pane è il simbolo più adeguato per esprimere il bisogno dell’uomo e l’amore di Dio. Tutta la storia di salvezza può essere riassunta nel gesto con cui Dio “dà il pane a ogni creatura” (Sal 136,25). Realtà umanissima, il pane è simbolo di vita e riunisce in sé il riferimento alla natura e alla cultura, alla terra, al lavoro dell’uomo, alla sua corporeità, alla sua fondamentale povertà, alle dimensioni della convivialità e dell’incontro, della socialità e della comunione, insomma di tutto ciò che dà senso alla vita sostentata dal pane. Il pane simbolizza tutto ciò che è essenziale per la vita. Il gesto eucaristico di Gesù (“prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì”: Gv 6,11) indica sia l’eucaristia come luogo di incontro di Dio con l’uomo sotto il segno della gratuità, dell’amore sovrabbondante ed eccessivo, del dono che non può essere contraccambiato, sia l’essenzialità del ringraziamento che l’uomo è chiamato a fare prima di mangiare, di fronte a ogni cibo, come confessione di fede che la vita non viene da lui ma è dono. Nel momento dello sfogo dell’appetito basilare della creatura, il ringraziamento immette una distanza tra sé e il proprio bisogno che restituisce l’uomo alla propria verità confessando il Dio signore della vita. La folla coglie correttamente il gesto di Gesù come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (cf. Gv 6,14), ma ne trae conseguenze che Gesù rigetta in modo netto. Sapendo che volevano farlo re, Gesù si ritira in solitudine sulla montagna (cf. Gv 6,15). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del Crocifisso. Gesù rifiuta la logica mondana di re e governatori che chiede potere e legittimazione del proprio dominio in cambio di elargizioni di mezzi di sussistenza.

Gesù si rifiuta di umiliare la fame “ontologica” dell’uomo, il bisogno umano, sfruttandolo per sé, e di attentare alla gratuità di Dio, facendone mercato. Gesù si ritira, “fa anacoresi”, persino “fugge”, secondo alcuni testimoni della tradizione manoscritta (Gv 6,15). Fugge chi di un profeta vuole fare un re, chi da un gesto di amore e di rivelazione vuole trarre un’istituzione politica. Fugge chi lo applaude e lo acclama, fugge persino i propri discepoli, mostrando che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria vita e l’evangelicità della propria fede. Gesù fugge, ma non per isolarsi, bensì per trovarsi insieme con il Padre. Fugge nella solitudine abitata della sua comunione con il Padre. Gesù è “tutto solo” (Gv 6,15). Ma dice altrove Gesù: “Io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32).