Amici del Signore
Il testo evangelico della VI domenica di Pasqua nell’annata B è costituito dalla prosecuzione (Gv 15,9-17) del brano letto la domenica precedente (Gv 15,1-8). Continuando il discorso circa il rapporto tra la vite e i tralci, ora, tralasciata la metafora campestre, il quarto evangelista rivela che il legame intimo che lega i discepoli a Cristo e tra di loro è l’agape, la carità, realtà che ha la sua scaturigine dal Padre stesso. “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). L’amore di cui parla Giovanni è realtà teologale che ha origine in Dio e da Dio scende suscitando una dinamica relazionale in cui ciascuna creatura umana è confrontata con la propria capacità di lasciarsi amare e di divenire soggetto di amore. Ai cristiani, spesso ansiosi di protagonismo caritativo, il vangelo ricorda che prima della carità della e nella chiesa, di cui dunque la chiesa è soggetto, vi è la chiesa nella carità. La chiesa vive della e nella carità di Dio manifestata in Cristo e deposta nel cuore dei credenti dallo Spirito santo donato. Anche la chiesa, non solo il singolo credente, è chiamata a rimanere nell’amore di Cristo. Prima di essere la chiesa che fa la carità, è la carità di Dio che edifica la chiesa.
Questa domenica, poi, prepara i credenti all’Ascensione e alla Pentecoste, dunque a ricevere il dono dello Spirito, e questo dono può essere ravvisato nella realtà dell’agape, dell’amore di cui parla il vangelo. Il Dio che nessuno ha mai visto si rende visibile nei gesti dell’amore. Così come l’invisibile Spirito si rende manifesto nei suoi frutti e anzitutto nel frutto che è la carità: “Il frutto dello Spirito è carità” (Gal 5,22). E come l’amore proviene da Dio (1Gv 4,7), ma dal Dio che è lui stesso amore (1Gv 4,8), così lo Spirito procede dal Padre, &eagrave; dono di quel Dio di cui la Scrittura afferma: “Il Signore è lo Spirito” (2Cor 3,17). Dunque, in un’ottica cristiana l’agape, che è dimensione praticabile, accessibile, che va “fatta”, è anche dimensione che precede e fonda la creatura, è dimensione in cui la chiesa trova la sua essenza. Ha scritto André Malraux: “Il genio cristiano è di aver proclamato che la via del mistero più profondo è quella dell’amore”. “Mistero” è parola che deriva dal greco mýo, che significa “essere chiuso” e anche “essere quieto”, “stare tranquillo”. “Mistero” esprime qualcosa di così profondo da essere inafferrabile, incoercibile nelle nostre categorie, eppure è anche quiete, dimensione in cui l’essere umano trova tranquillità. In questa dimensione di inafferrabilità, che sfugge a ogni controllo e tentativo di possesso, sta l’amore e sta lo Spirito santo.
Il nostro testo è una sorta di inno all’amore e contiene un profondo insegnamento sull’arte di amare. Dice Gesù: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”. Non dice: “così io ho amato Lui”, ma: “così io ho amato voi”. E più avanti, dopo aver affermato di aver amato i discepoli, non aggiunge, “così voi amate me”, ma: “Amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,17). Ecco la logica dell’amore che viene da Dio. L’amore vissuto e poi chiesto da Gesù ai discepoli non è la reciprocità, non è un moto circolare che si snoda in “va e vieni” tra amato e amante. Infatti, come l’amore del Padre per Gesù diviene l’amore con cui Gesù ama i suoi, così l’amore di Gesù per i suoi è chiamato a diffondersi come amore di ciascuno per gli altri. Questa affermazione, che fonda la libertà dei rapporti nella vita comunitaria cristiana, è invito a non pretendere mai reciprocità, ma ad amare nella più assoluta gratuità. Non dice qualcosa di analogo l’evangelista Matteo quando scrive: “Se amate quelli che vi amano, … cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,46-47). La rivelazione dell’amore che viene da Dio va ben oltre la logica della reciprocità. Gesù aggiunge, secondo il terzo evangelista: “Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla” (Lc 6,35).
Questa rivelazione sull’amore si accompagna, nel nostro testo evangelico, a parole profonde e uniche sull’amicizia. Dice Gesù, rivolto ai suoi discepoli: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Il IV Vangelo in questo passo chiama i cristiani “amici”, fíloi. Il servo è colui che non sa, non comprende ciò che il suo signore fa, e forse non capisce nemmeno ciò che il signore gli fa fare e perché glielo fa fare. Pertanto il servo è anche colui che non rimane, che non persevera: “il servo non rimane per sempre nella casa del suo signore” (Gv 8,35). Non sente appartenenza, e non la sente perché manca di libertà. Il servo non può perseverare: solo colui che è libero può perseverare, rimanere. È il discepolo amato, nel IV Vangelo, colui che rimane (cf. Gv 21,23).
L’amico, invece, è legato a colui che lo ama da una conoscenza, da un sapere, da una scientia, da una penetrazione del suo animo. L’amico è colui che ha a lungo ascoltato, ha a lungo scrutato ed è pervenuto a una conoscenza altra rispetto a quella dei più, una conoscenza più intima e profonda; è pervenuto a una relazione che è un legame libero, non da schiavo; è pervenuto a una relazione che conosce molto silenzio e molte lacrime, ma che conosce anche una gioia radicata e una stabilità che è la maturità dell’amore. Una relazione che arriva a esprimersi come dono di sé, come dono della vita nella gioia; gioia per la vita e la crescita dell’altro, dell’amico. Giovanni Battista è il tipo di questa amicizia: “L’amico dello Sposo è colui che è presente e lo ascolta, ed esulta di gioia alla voce dello Sposo. Questa mia gioia – dice Giovanni Battista quando il Cristo si è presentato quale Sposo inaugurando le nozze messianiche con l’umanità – ora è compiuta. Egli deve crescere e io diminuire” (cf. Gv 3,29-30). Questa relazione porta ad amare l’altro come se stesso, porta a non capire più perché mai si dovrebbe preferire “sé” e la propria vita all’altro e alla sua vita, se l’altro è l’amico. Narra l’AT che Gionata legò talmente la sua anima a quella di David che lo amò come se stesso, fino a esporre, cioè a rischiare la propria vita per salvare quella dell’amico David (cf. 1Sam 8,1-3). Sì, “nessuno ha un amore più grande di chi espone, di chi rischia e dà la propria vita per gli amici” (Gv 15,13). Amici del Signore, non servi di un padrone: questo l’aspetto sottolineato dal quarto evangelista dello status del credente. Per ricordare che la fede non è esaurita da un’appartenenza ecclesiale, da una pratica rituale e liturgica, da un impegno per gli altri, ma che ha come matrice nascosta, profonda e vitale, la relazione personale con il Signore. Relazione cercata, invocata, nutrita, in cui si rientra dopo l’allontanamento, lo smarrimento, insomma relazione voluta e vissuta. Amicizia con il Signore. Non si tratta di cadere in atteggiamenti affettivi e intimistici, ma di prendere sul serio nella propria concreta esistenza la vita in Cristo in cui ci ha immesso il battesimo, di prendere sul serio ciò che Paolo confessa di sé: Cristo ha amato me, ha dato se stesso per me, non io vivo, ma Cristo vive in me (cf. Gal 2,20). Così la morte e resurrezione battesimali scendono nelle nostre profondità facendoci morire a noi stessi e facendo vivere in noi l’“io” di Cristo. L’amato abita nell’amante, è presenza interiorizzata in lui: “Chi mi ama anch’io lo amerò e verrò a lui e prenderò dimora in lui” (cf. Gv 14,23). E così noi, piano piano, siamo plasmati quali amici del Signore. “Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando” (Gv 15,14). Quando obbedire è fare la volontà dell’amato, allora è evento di libertà e dilatazione di gioia. Ma se l’obbedienza è senza conoscenza e senza amore, allora è impresa di schiavo. Vi è consustanzialità tra amare e fare la volontà dell’altro, dunque tra amare e obbedire. Tanto che ci potremmo chiedere: sarà mai capace di amare chi è incapace di obbedire? Un amore che rifiuti obbedienza è narcisismo, protagonismo, filautía, è illusione e menzogna; un’obbedienza che non si apra all’amore resta un legalismo, resta minata dalla riserva di sé, dalla diffidenza verso l’altro, dalla ribellione sempre possibile e sempre pronta ad esplodere; resta nella morte e non si apre alla vita. Ebbene la Scrittura già nell’AT comanda: “Tu amerai”. “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18), e il NT esprime questo comando: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17). La Parola e l’altro: entrambi sono un appello all’amore, si sintetizzano nell’amore.
Noi facciamo esperienza di essere amati dal Signore ascoltando, interiorizzando, mettendo in pratica la sua parola e facendola divenire relazioni ed eventi, facendola divenire corporea, incontro di volti. Si tratta di obbedienza, ma obbedire alla parola di colui che ci ama è esperienza di gioia. “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17). L’amore è comandato perché viene da un Altro e non da noi e perché solo un amore comandato può giungere ad amare il nemico. L’amore è comandato, ma essendo comandato da Gesù che l’ha vissuto fino alla fine, esso è anche narrato e offerto come possibilità reale e praticabile a chi lo accoglie.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose