“È fuori di sé!”
Il pervertimento delle relazioni buone o che tali dovrebbero essere: questa è una pista di lettura che attraversa sia il passo dell’Antico Testamento (Gen 3,9-15) che il Vangelo (Mc 3,20-35). Nel testo della Genesi la figura del serpente dà forma a sentimenti ed emozioni interiori degli umani che vanno dal sospetto alla frustrazione, diventano sogno e gesto di liberazione da un Dio non più sentito come presenza amica e protettrice, ma come padrone geloso e dispotico (cf. Gen 3,1-7) e infine rivelano il loro carattere illusorio generando paura e vergogna nell’uomo che si nasconde da Dio e che incrina la propria relazione con la donna accusandola e sfuggendo all’assunzione di responsabilità.
A sua volta la donna si deresponsabilizza mediante il meccanismo dell’autogiustificazione e dell’accusa rivolta ad altri da sé (Gen 3,9-15). Ormai la fiducia tra umani e Dio è infranta, la relazione tra uomo e donna è minata dalle dinamiche di autogiustificazione e di colpevolizzazione dell’altro e l’Eden, il giardino cintato, il paradiso (parádeisos, paradisus) in cui Dio aveva posto gli umani (Gen 2,15) diventa un carcere da cui evadere. Il paradiso viene sentito come inferno. La gratuità del dono viene percepita come insopportabile intrusione e oppressione.
Nel testo evangelico Gesù esperimenta l’ostilità del suo ambiente famigliare che lo giudica “fuori di sé” (Mc 3,21) e che porta i suoi componenti, tra cui anche “sua madre” (Mc 3,31), a cercare di fermarlo e impedirgli il genere di vita che aveva intrapreso. Ma Gesù conosce anche l’opposizione del proprio ambiente religioso. L’incomprensione della sua persona e della sua azione accomuna i famigliari di Gesù e le autorità religiose ebraiche: se i suoi famigliari lo giudicano pazzo, gli scribi lo accusano di essere indemoniato (Mc 3,22).
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Il vangelo mostra un Gesù che ormai è divenuto un uomo pubblico: la sua attività di predicazione e di cura riscuote successo e richiama molta folla sicché lui e i suoi discepoli non hanno neppure il tempo di mangiare. Senza dubbio, il carattere inusuale del genere di vita itinerante con una piccola comunità di seguaci e le condizioni disagiate che tale vita comporta per Gesù stesso, sono motivo di preoccupazione per i membri del suo clan famigliare.
Ma vi è certamente dell’altro. L’ostilità e il giudizio duro dei famigliari di Gesù sono il riflesso reattivo di un aspetto delle sue scelte: la sua vita itinerante e celibataria con una piccola comunità di discepoli danneggia economicamente la famiglia che si vede privata non solo di un suo membro, ma anche dei vantaggi economici e del prestigio sociale che l’alleanza con un altro gruppo famigliare, garantita da un matrimonio, avrebbe comportato. Ma Gesù vive con radicalità la sua appartenenza a Dio (“Tu sei il mio Figlio”: Mc 1,11) e compie la sua volontà a ogni costo (“Non ciò che voglio io, ma ciò che tu vuoi”: Mc 14,36) e questo gli consente di assumere le ostilità dei famigliari e anche delle autorità religiose – queste ultime particolarmente preoccupate anche dalla popolarità crescente di cui Gesù godeva – come conferme del suo cammino.
Le inimicizie dei famigliari non agiscono su di lui come ricatto affettivo e le ostilità delle autorità religiose non lo intimoriscono né lo inducono a tornare indietro. Leggendo la sua vicenda non psicologicamente, ma alla luce delle Scritture, Gesù sa che il giusto può conoscere l’avversione e l’opposizione dei famigliari e delle autorità religiose (cf. Gen 37,12ss.; Sal 69,9; Zc 13,6): non era questo il destino dei profeti? Va sottolineata la dimensione pubblica, esposta, visibile, del tipo di vita di Gesù. Questo suscita preoccupazione e incomprensione da parte della sua famiglia e delle autorità religiose che si trasforma in giudizio, critica, condanna, calunnia. E spesso il giudicare e il condannare, lo sparlare e il calunniare sono misure di difesa da ciò che potrebbe costringere a ripensare se stessi e a rimettersi in causa oppure ad accedere a una conoscenza rinnovata di colui che si ritiene di conoscere già.
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Il prosieguo del vangelo mostrerà che ciò che Gesù vive sulla propria pelle, lo annuncerà anche come possibilità per i suoi discepoli: inimicizie da parte dei famigliari (cf. Mc 13,12-13) e da parte di autorità religiose e politiche (cf. Mc 13,9). Il credente deve ricordare che inimicizie e opposizioni fanno parte della promessa del Signore: il centuplo che Gesù ha promesso a chi lo segue lasciando tutto, viene donato “insieme a persecuzioni” (Mc 10,30). Dunque, nessuna illusione: seguire Cristo non significa una vita esente da negatività e opposizioni. Anche se la reazione del credente che si trova calunniato (come qui lo è Gesù), osteggiato proprio dalle persone e negli ambienti che più dovrebbero mostrargli vicinanza, potrebbero portare il credente a sentire come irricevibili e inammissibili tali situazioni e a elaborare pensieri di abbandono. Opposizioni anche inspiegabili, inimicizie improvvise, persone che da amiche si rivelano nemiche, potranno certamente accompagnare il cammino del credente, ma non potranno divenire causa di abbandono: sono state vissute da Gesù e fanno parte della promessa di Gesù.
Di fronte ai famigliari che lo giudicano pazzo, “fuori di sé”, e vogliono farlo uscire fuori dalla casa in cui si trova, Gesù afferma che nella sua nuova famiglia, nella comunità dei credenti, il criterio di prossimità non è dato dai legami di sangue, ma dal fare la volontà di Dio (Mc 3,35). L’appartenenza alla comunità di Gesù non ha altro criterio che il fare la volontà di Dio: non vi sono privilegi, appartenenze di diritto o acquisite una volta per tutte, ma l’appartenenza a Dio avviene solamente tramite l’ascolto della parola di Dio che conduce a rinnovare ogni giorno la fedeltà alla volontà del Padre. Per cui ci possiamo senz’altro porre la domanda: chi è dentro e chi è fuori? L’essere nella chiesa, magari anche in modo visibile e pubblico, non va necessariamente di pari passo con la fede e con il fare la volontà di Dio.
Il giudizio finale illuminerà ciò che nell’oggi può restare opaco e nascosto. L’appartenenza ecclesiale e anche la pratica sacramentale non sono assolutamente garanzie di salvezza: questo lo afferma Gesù nei vangeli (Mt 7,21-23; Lc 13,26-27) e lo ribadisce Agostino in un celebre passo del De civitate Dei (I,35): “La città pellegrina di Cristo si ricordi che sicuramente fra i suoi avversari si nascondono dei futuri suoi concittadini e non ritenga vano sopportare presso di loro l’ostilità, finché non li raggiunga come credenti; allo stesso modo, fra quelli che la città di Dio porta anche con sé, ad essa legati nella comunione sacramentale, finché è pellegrina nel mondo, alcuni non li avrà con sé nella condizione eterna dei santi; questi sono in parte noti, in parte ignoti e non esitano a mormorare contro Dio, con cui sono uniti per mezzo dei sacramenti, fino a riempire una volta i teatri assieme agli altri, una volta le chiese assieme a noi. Ma persino della correzione di alcuni di questi non si deve assolutamente disperare, perché presso chi ci è apertamente contrario si nascondono dei futuri compagni, anche se tuttavia essi non ne sono consapevoli”. Insomma, se “sappiamo dove la chiesa è, non sappiamo dove essa non è” (Tomáš Halík).
Nei vv. 22-30, troviamo la controversia tra la delegazione ufficiale degli scribi inviati da Gerusalemme e Gesù. In questione vi è l’attività esorcistica di Gesù e l’origine del potere di cui Gesù si serve per cacciare i demoni. Anzitutto va rilevato che anche gli avversari di Gesù riconoscono che Gesù realmente scaccia demoni, ha potere su di loro. Tuttavia essi affermano che Gesù fa questo in nome del principe dei demoni. Gesù avrebbe ricevuto dal “demone capo”, Beelzebùl, potere di scacciare i demoni inferiori. Questa interpretazione è smentita dai demoni stessi che invece confessano rettamente Gesù riconoscendolo come “il santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio di Dio” (Mc 3,11), “Figlio del Dio altissimo” (Mc 5,7).
Se l’argomento di cui si parla, tratto dalla complessa demonologia dell’epoca, ci appare distante, ci è certamente più familiare il meccanismo di delegittimazione dell’altro, di stravolgimento della realtà al fine di distruggere una persona, la pratica della diffamazione, la menzogna, che si accompagnano alla certezza (esibita) di possedere la verità, di sapere. Gesù anzitutto reagisce facendo propria l’argomentazione dei suoi accusatori e smontandola: se Satana scaccia Satana allora “è finito”. La divisione si è introdotta nel suo regno: il divisore crolla perché diviso esso stesso. In verità, e ora Gesù presenta la sua interpretazione, Satana ha fine perché ha incontrato uno più forte di lui.
Gesù è il più forte annunciato dal Battista (Mc 1,7) che instaura i tempi escatologici e dà inizio al Regno di Dio. Cogliamo così il senso dell’annotazione dell’evangelista che afferma che Gesù risponde agli scribi parlando loro “in parabole” (Mc 3,23): al cuore delle parabole vi è la rivelazione del Regno di Dio. Qui, questa buona notizia viene annunciata attraverso l’annuncio della sconfitta del regno di Satana. Infine Gesù denuncia con durezza l’opera di stravolgimento della verità proclamando la non remissibilità della bestemmia contro lo Spirito santo. Ovvero, chi non riconosce l’azione dello Spirito – e lo Spirito è la fonte del perdono – si esclude da se stesso dal perdono misconoscendone e disprezzandone la sua origine.
Per gentile concessione del Monastero di Bose