L’immersione nella preghiera
Dopo la manifestazione del Messia Gesù alle genti, all’umanità intera, attraverso i Magi con la festa dell’Epifania, con il battesimo di Gesù la Chiesa celebra la sua manifestazione a Israele. Gesù si presenta pubblicamente a Israele come Figlio di Dio su cui riposa lo Spirito santo condividendo ciò che, scrive Luca, tutto il popolo fece, ovvero, l’immersione nel Giordano ad opera di Giovanni. E da allora inizia il ministero pubblico di Gesù. Ciò che colpisce in questa manifestazione a Israele del Messia è che questo evento pubblico è trasformato da Luca in un evento personalissimo, interiore, spirituale. Come vedremo, Luca non narra il battesimo di Gesù ma la preghiera di Gesù.
Gesù si trova in solitudine, sta pregando, e in questa preghiera la parola di Dio ascoltata tante volte – e possiamo pensare a parole memorizzate e interiorizzate della Scrittura – Gesù la sente rivolta a sé in maniera diretta e personale: “Tu sei il mio Figlio, tu l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”. L’immersione qui non è tanto nelle acque del Giordano, quanto nelle pagine della Scrittura, in alcune pagine particolarmente pregnanti, come un salmo messianico, la legatura di Isacco, il passo di Isaia 42 sul servo del Signore. O meglio, queste pagine erano immerse in Gesù stesso, nella sua interiorità, erano memorizzate, e vengono vivificate venendo applicate da Gesù a se stesso diventando luce sul suo cammino, diventando sintesi che anticipa ciò che l’attende, diventando fascio di luce proiettato sul suo futuro, perché in quelle parole vi è come la sintesi della sua vita, morte e resurrezione, la sua missione di Messia e Servo sofferente.
La narrazione lucana che compone la lettura evangelica odierna è composta da due brani del capitolo terzo del vangelo secondo Luca: Lc 3,15-16.21-22. Il primo brano, i vv. 15-16, contiene un versetto proprio della redazione lucana e assente da Marco e Matteo. Si tratta del v. 15: “Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo”. Questo versetto fa sì che quello che negli altri due Sinottici è un annuncio solenne che fa parte della predicazione del Battista, qui sia una risposta alla domanda inespressa verbalmente dal popolo circa l’identità di Giovanni e del Messia. Il v. 16a dice: “Giovanni rispose dicendo a tutti:”. Il testo lucano pone l’avvento di Gesù sotto il segno, caro a Luca già nei vangeli dell’infanzia, dell’attesa. Simeone attendeva la consolazione di Israele (Lc 2,25), Anna parlava del bambino a quanti attendevano la redenzione di Gerusalemme (Lc 2,38).
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E ora tutto il popolo era in attesa. E l’attesa viene radiografata dall’evangelista come domanda interiore, come pensiero dubitativo: Giovanni è forse lui il Messia? Le somiglianze tra il Battista e Gesù sono un elemento che attraversa tutti i vangeli. Certamente, Luca sembra sottolinearle mostrando un Giovanni che già “annuncia l’evangelo” (Lc 3,18) e che si muove come predicatore itinerante (Lc 3,3) come farà anche Gesù nel suo ministero pubblico. È una domanda che vive nell’intimo, perché è una domanda vitale, è una domanda che trova il suo corrispettivo nella domanda esplicita che Giovanni porrà a Gesù attraverso i suoi discepoli: “Chiamati due dei suoi discepoli Giovanni li mandò a dire al Signore: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro? Venuti da lui, quegli uomini dissero: Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Lc 7,18-20). La domanda a cui ora Giovanni risponde, più avanti diverrà la domanda di Giovanni stesso.
Anche Giovanni si troverà incerto della risposta che pure ha già dato e in cui credeva. Anche Giovanni, come la Scrittura, fa segno, indica, fa posto, apre la via a colui che viene dopo di lui, al Messia. Eppure la sua risposta parla del Messia nei termini della forza e del giudizio, e usa le immagini del vaglio e, soprattutto, del fuoco (“battezzerà in Spirito santo e fuoco, brucerà la paglia con fuoco inestinguibile” Lc 3,17). Così che la risposta dovrà ridivenire domanda quando Gesù si mostrerà dalle sue opere come Messia mite che narra un Dio che non strappa la zizzania dal campo dov’è seminato il buon grano, che attende, anche lui, i tempi della maturazione del seme e della crescita della pianta, che si oppone ai discepoli che vorrebbero che facesse scendere un fuoco dal cielo per consumare i samaritani che non lo hanno accolto.
In verità, Gesù dirà di essere venuto proprio a gettare un fuoco sulla terra, (Lc 12,49), ma questo fuoco non deve bruciare né scorie, né peccatori, ma è il fuoco in cui Gesù stesso sarà immerso: “Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già divampato. Ma devo essere battezzato con un battesimo e come sono angustiato finché non sia compiuto” (Lc 12,49-50). Il battesimo in Spirito santo e fuoco ci sarà ma alla Pentecoste, quando Gesù sarà già passato attraverso la prova della passione e morte, quando Gesù avrà già compiuto il destino di colui che “compie guarigioni oggi e domani e il terzo giorno è consumato” (Lc 13,32). Del resto, la narrazione lucana ci suggerisce che Giovanni stesso è già stato battezzato in Spirito santo quando la madre di Gesù ha salutato sua madre, Elisabetta, e alla voce di Maria lo Spirito santo è sceso su Elisabetta e ha riempito anche Giovanni che nel seno materno ha sussultato di gioia (Lc 1,39-45).
La risposta che Giovanni dà al popolo è giusta, ma tale che non solo dovrà essere completata e aggiornata, ma che Giovanni stesso non è cosciente di quanto essa riguardi anche lui personalmente. Di quanto, in certo modo, vi sia già immerso. Ovvero, di quanto lui stesso con la sua vita, più ancora che le sue parole, sia la risposta. Luca suggerisce questo affermando, dopo aver annotato che Giovanni annunciava l’evangelo (Lc 3,18), che Erode fece arrestare Giovanni e lo fece mettere in quel carcere in cui poi trovò la morte (Lc 3,19-20). E questa notizia precede il brano che costituisce la seconda parte della pericope evangelica odierna e che la Bibbia di Gerusalemme intitola “Battesimo di Gesù”. In realtà, in questo brano si dice che sia il popolo che Gesù sono già stati battezzati. Del resto, Luca ci ha già avvertiti che Giovanni è stato arrestato ed è ormai in prigione. Sicché il passo lucano del battesimo di Gesù non è il racconto del battesimo, che è appena accennato come fatto già avvenuto “Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, …”: Lc 3,21), ma è un passo che parla della preghiera di Gesù. Rispetto ai paralleli sinottici, è soltanto Luca che specifica che Gesù “stava in preghiera” (Lc 3,21).
Per Luca il contesto della discesa dello Spirito su Gesù non è l’immersione battesimale, ma la preghiera. Preghiera che è anzitutto ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture e sentita come rivolta personalmente a sé. “Tu sei mio Figlio”: la parola del Salmo 2 non riguarda più Davide, un re d’Israele, ma riguarda Gesù, riguarda colui che legge e ascolta la parola come indirizzata a sé, come parola da realizzare facendo la volontà del Padre. E questa è l’esperienza filiale. Nell’ascolto e nella realizzazione della parola e della volontà di Dio consiste la dimensione di figlio in cui Dio pone il compiacimento. Dirà Gesù: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).
Se Marco e Matteo, narrando l’episodio del battesimo di Gesù nel Giordano, privilegiano l’immagine “materna” della nascita evocando l’uscita di Gesù dalle acque, Luca, sottolineando la preghiera di Gesù e l’ascolto della voce divina, accorda maggior peso alla simbolica “paterna”: l’esperienza primordiale del padre che il bambino fa è sempre mediata dalla parola e dunque dalla voce. Pertanto la preghiera nasce e sempre si nutre di ascolto, l’ascolto che genera alla figliolanza divina, alla vita in Cristo. In fondo, l’operazione di Luca, di mettere sotto il segno della preghiera ciò che Marco e Matteo ponevano sotto il segno del battesimo, è importante perché indica che la vita in Cristo, a cui dà accesso il battesimo si nutre poi di preghiera, e altro non è che la vita di fede tout-court.
La preghiera appare poi nel testo lucano come luogo di discernimento della propria vocazione e missione. Le parole della Scrittura indirizzano l’identità e la missione di Gesù sulla via messianica (Sal 2,7: “Tu sei mio figlio”), verso un cammino di sofferenza e morte (Gen 22,2 cui rinvia l’espressione “l’amato” che designa Isacco in procinto di salire il monte Moria dove dovrà essere sacrificato) e lo pongono sulla scia del Servo del Signore annunciato da Isaia (Is 42,1: “In te mi sono compiaciuto”). Soprattutto la preghiera, per Gesù come per il cristiano, è occasione di conoscere l’amore di Dio: “Tu sei il mio Figlio, l’amato”.
Essendo anzitutto ascolto della Parola di Dio, la preghiera è apertura alla comunione e all’amore che vengono da Dio e che si esprimono nel suo Spirito e nella sua Parola. Esperienza di amore ricevuto, la preghiera diviene luogo di sempre rinnovata nascita alla sequela di Cristo sotto l’azione dello Spirito. E per operare questa continua rigenerazione del credente, la preghiera sempre, ogni giorno, ogni volta che si attiva, deve tornare all’ascolto della Scrittura, sacramento attraversato dallo Spirito santo e che contiene la Parola di Dio.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose