Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 8 Ottobre 2023

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Fare frutti

Tanto la prima lettura (Is 5,1-7) quanto il vangelo (Mt 21,33-43) di questa domenica sottolineano il tema del fare: c’è un fare di Dio – dice Isaia – che attende un fare umano come risposta; in particolare, Dio attende da parte della vigna-Israele un fare frutti adeguati (Is 5,2.4.7). La prassi del credente – dice Matteo attraverso la parabola che mette in scena una vigna e dei contadini incaricati di coltivarla per consegnarne poi i frutti al padrone – è un fare frutto. L’agire cristiano, pastorale in specie, rischia spesso la cecità dell’attivismo, la pigrizia della forza d’inerzia, la routine della stanchezza, l’insipienza di chi ha “freddo il senso e perduto il motivo dell’azione” (Thomas Stearns Eliot).

Il raffreddarsi della carità (cf. Mt 24,12) si può accompagnare a un fare compulsivo e senza discernimento. La fede nel fare di Dio per l’uomo, dunque nel suo amore, è il fondamento dell’agire del credente. Il fare di Dio per la sua vigna è un lavorare (cf. Is 5,2) che ne esprime l’amore (cf. Is 5,1). L’amore è un lavoro, una fatica: la “fatica dell’amore” (1Ts 1,3). Anche per l’uomo, lungi dall’essere un’attività facile e immediatamente disponibile, l’amore è un lavoro che esige un’ascesi. La maturità umana trova nella capacità di lavorare efficacemente e di amare in modo adulto due elementi qualificanti decisivi. L’amore divino nutre un’attesa nei confronti dell’amato: secondo il testo di Isaia, non attende amore di ritorno, ma giustizia (cf. Is 5,7). La giustizia umana onora l’amore di Dio. L’amore che attende qualcosa dall’amato esercita una dolce violenza, ma un amore che non attenda nulla dall’amato è semplicemente irreale.

Prima lettura e vangelo sono brani di teologia della storia, di rilettura della storia alla luce della fede. Isaia parla dell’agire di Dio verso il suo popolo e la parabola evangelica rilegge la storia degli invii dei profeti e del loro rigetto da parte del popolo, fino all’invio del Figlio. Emerge la difficoltà di discernere il servo di Dio, il profeta. L’alterità insostenibile di Dio diviene l’alterità del profeta che si traduce nella sua presenza scomoda, imprevedibile, “ingestibile”, non racchiudibile in etichette del tipo “progressista” o “conservatore”. Uomo del pathos di Dio, le reazioni del profeta agli eventi storici ed ecclesiali sfidano il buon senso e il comune sentire religioso e appaiono di volta in volta eccessive, non allineate, sproporzionate, difficilmente comprensibili, trascurabili, ininfluenti, folli. Ed egli stesso viene sentito spesso come insopportabile o deriso come sognatore o considerato come presenza di cui si può tranquillamente non tener conto alcuno. Potremmo dire che il profeta rappresenta nella sua carne, nel suo messaggio, nella sua vita, nelle sue parole, insomma, nella sua stessa persona, l’alterità di Dio che forzatamente si scontra con il sentire e pensare umani. 

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Nella parabola evangelica odierna emerge un elemento macroscopico di tale alterità che distanzia Dio dall’uomo: l’invio del figlio, da parte del padrone della vigna, a ritirare i frutti del raccolto dopo che i servi inviati in precedenza erano stati maltrattati, percossi e perfino uccisi. Il retropensiero con cui il “padrone di casa” (oikodespόtes: Mt 21,33) prende tale decisione appare sconcertante e azzardato: “Avranno rispetto per mio figlio!” (21,37). Coloro che non hanno avuto riguardo per gli altri uomini inviati perché mai dovrebbero averne per il figlio? La brama di possesso è potente e conduce gli uomini a essere senza scrupoli e a mettere in atto tutto ciò che può contribuire al raggiungimento del loro scopo. E costoro hanno già mostrato una brutale capacità di violenza, oltre ad avere occupato la vigna, cioè a ritenerla ormai un loro possesso, non un bene affidato e di cui rendere conto.

Ma forse possiamo dare un contenuto, una forma e un nome all’agire così poco prudente da parte del padrone della vigna che evoca e rinvia discretamente all’agire divino. Nella parabola lucana del giudice iniquo e della vedova insistente (Lc 18,1-8), il giudice che non voleva rendere giustizia alla povera donna “non aveva riguardo per l’uomo” (vb. entrépo, come in Mt 21,37) così come “non temeva Dio” (Lc 18,2.4). Eppure quel giudice arrivò a fare giustizia alla donna nonostante se stesso e a seguito dell’insistenza ossessiva della donna. Il padrone della vigna, e dietro a lui, il Dio a cui egli rinvia, sembra agire nello stesso modo: nonostante abbia ben visto il comportamento criminoso dei fittavoli egli invia il figlio, e insiste ostinatamente a bussare alla porta di quegli uomini. 

Forse cambieranno finalmente atteggiamento. Dietro a quel forse sta l’atto di fiducia che Dio fa all’uomo nonostante l’uomo stesso, atto di fiducia che si esprime nell’agire perseverante, ostinato, che non si lascia fermare nemmeno dalla violenza e dal male. Dice l’inizio della lettera agli Ebrei: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1-2). Il Primo Testamento ricorda che i profeti non solo incontrarono il non-ascolto (2Cr 24,19; Ger 7,25-26), ma furono fustigati e messi in ceppi (Ger 20,2), uccisi di spada (Ger 26,23), lapidati (2Cr 24,21) da coloro a cui erano inviati.

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Insomma: i figli d’Israele “hanno ucciso i tuoi profeti, che li ammonivano per farli tornare a te, e ti hanno insultato gravemente” (Ne 9,26). Dio fa fiducia all’uomo nonostante l’uomo stesso e, conoscendo quel legno storto che è l’umanità, cerca di raggiungerlo attraverso vie che non sono né diritte né lineari, ma attraversate dalla follia di un agire in cui egli stesso rischia in prima persona: un padre che mette a rischio il figlio mette a rischio se stesso in quanto padre. E quando la parabola afferma che i contadini, una volta riconosciuto il figlio del padrone e dopo aver deciso di ucciderlo per impadronirsi dell’eredità, “lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero” (21,39), essa allude all’uccisione di Gesù, il Messia, il quale “subì la passione fuori dalla porta della città” (Eb 13,12).

La domanda con cui Gesù chiede ai suoi interlocutori come si comporterà il padrone quando verrà di persona nella sua vigna (21,40) trova la loro risposta univoca: “Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini che gli consegneranno i frutti a suo tempo” (21,41). Alla luce di quanto segue, questa risposta suona come un’autocondanna: sono loro che pronunciano il giudizio su se stessi. Infatti, il rimando alle Scritture e le parole forti di Gesù rivolte espressamente al voi degli interlocutori (21,42-43: “non avete mai letto…? Io vi dico … vi sarà tolto il Regno di Dio …”) consentono al narratore evangelico di terminare l’episodio affermando che “i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che [Gesù] parlava di loro”. La parabola successiva (Mt 22,1-14) specificherà che tale giudizio di condanna si realizzerà con la distruzione di Gerusalemme: “Il re mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città” (22,7). Ma la riflessione più importante che la parabola ci conduce a fare riguarda la gente che riceverà il Regno di Dio e ne darà i frutti (v. 43). 

Il testo lascia aperta la questione circa l’identità dell’éthnos, “gente”, “persone” a cui “sarà dato il Regno di Dio” (21,43). Non si tratta di un laòs, “popolo”, e il termine éthnos non ha valore teologico o etnico. Non è dunque fondata l’idea di vedervi un’allusione alla chiesa che si sostituirebbe in qualità di nuovo o vero Israele alla vigna-Israele. Nessun sostituzionismo può essere fatto emergere dal nostro testo. È invece importante notare che elemento caratterizzante e identificante questa entità è il fare frutti. Per il primo evangelista i frutti sono quelli che rivelano la qualità della persona umana, la sua bontà o meno: “dal frutto si riconosce l’albero” (Mt 12,33; cf. 7,20); sono i frutti che mostrano che il cuore umano ha saputo accogliere il seme della parola e comprenderla e dare frutto seppure in misure differenti (cf. Mt 13,23).

Il piano pratico, etico, dei frutti, visibilizza il piano spirituale della conversione: quello è il frutto decisivo richiesto a tutti. Quello il frutto già richiesto da Giovanni Battista a chi si recava da lui per ricevere l’immersione battesimale: “Fate un frutto (al singolare) degno della conversione (metánoia)” (Mt 3,8). La centralità “pratica” dei frutti è analoga a quella delle opere che sarà determinante nel giudizio universale, secondo la pagina di Mt 25,31-45. In Matteo possiamo vedere l’abbozzo di una ecclesiologia dei frutti che crea una chiesa non istituzionale, non riservata a chi pronuncia una retta confessione di fede (“Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’, entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”: Mt 7, 21) e di cui fan parte quanti pongono in atto le opere dell’amore, i gesti dell’attiva carità e della giustizia che discrimineranno tra buon grano e zizzania (Mt 13,36-43). Una chiesa che Dio solo conosce, tanto che va ben oltre le convinzioni delle singole persone, come emerge dalla domanda “quando mai, Signore?” che nel giudizio finale tutti rivolgeranno, sorpresi e sconcertati, al Giudice escatologico (Mt 25,39.44).

Per gentile concessione del Monastero di Bose