Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 8 Gennaio 2023

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Comunione con Dio

L’evento del battesimo di Gesù nel Giordano a opera di Giovanni, evento in seguito al quale lo Spirito di Dio viene su Gesù (Mt 3,13-17), è preannunciato dalla figura del Servo del Signore su cui Dio pone il suo Spirito (Is 42,1-4.6-7) e proclamato da Pietro nella sua predicazione come atto con cui Dio ha “unto” in Spirito santo Gesù (At 10,34-48). Lo Spirito di Dio che rimane su Gesù significa la comunione piena tra il Padre e il Figlio, tra Dio e Gesù.

La comunione di Gesù con Dio (vangelo) si esprime orizzontalmente, cioè nelle relazioni umane, da un lato come rifiuto di condannare (I lettura), dall’altro come attivo fare il bene e guarire chi si trova nel bisogno (II lettura). Infatti, le azioni di spezzare la canna incrinata e di spegnere lo stoppino fumigante che il Servo del Signore non compie, si riferiscono ai gesti che invece compiva l’araldo del Gran Re babilonese per significare che una condanna a morte diventava operativa: il senso è che il Servo del Signore non viene per condannare, ma per dare vita (I lettura). E nella predicazione di Pietro, Gesù appare colui che “passò facendo il bene e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (II lettura).

In questi testi, la comunione con Dio non è spiegata, ma affermata, e mostrata nelle sue conseguenze. Vengono presentati i frutti della comunione, più che le condizioni che l’hanno resa possibile. Sarà Luca nel racconto parallelo a quello di Matteo che mostrerà un Gesù in preghiera (Lc 3,21) mostrando così la sorgente su cui Gesù fonda la sua comunione con Dio: la preghiera, l’ascolto delle Scritture, l’intimità con il Padre. Possiamo allora vedere come unità delle letture l’effetto che la comunione con Dio produce nella vita di un uomo. Da dove si riconosce l’uomo di Dio? La comunione con Dio che egli vive? Quali ne sono le espressioni? Per esempio, la comunione con il Signore vissuta dal Servo di cui parla Isaia si manifesta come forza nei confronti di se stesso che porta questo inviato a non giudicare, ad astenersi da quel movimento di condanna dell’altro che è sempre un seminare morte e non vita.

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Negli Atti degli Apostoli la comunione di Dio con Gesù si manifesta nell’azione di benedizione e di attivo fare il bene, di cura e guarigione di tanti che sono sotto il dominio del male. Vi è l’espropriazione di sé a favore degli altri raggiunti nel loro bisogno, nella loro infermità, nella loro povertà. Nel vangelo la comunione con Dio si esprime come estrema libertà di Gesù nel sottomettersi in consapevole obbedienza al battesimo di Giovanni e nella creazione di una comunione fraterna con Giovanni stesso grazie alla comune – cioè tanto di Gesù quanto di Giovanni – obbedienza al volere di Dio che supera il volere pur giustificato di Giovanni stesso. Nel vangelo, la comunione con Dio è colta nella capacità di creare fraternità e di vivere insieme nella libertà rinunciando a far prevalere la volontà propria.

L’evento del battesimo è frutto di una scelta, di una decisione presa da Gesù. Matteo sottolinea l’intenzionalità di Gesù: “Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui” (Mt 3,13). Al tempo stesso, il battesimo è presentato come l’evento in cui Gesù appare colui che il Signore stesso ha scelto. Volere di Dio e volere di Gesù coincidono e questa coincidenza prende nome di obbedienza. L’obbedienza di Gesù al Padre emerge anche nel dialogo – presente solo nel vangelo secondo Matteo – tra il Battista e Gesù (Mt 3,14-15).

Gesù decide di farsi immergere nel Giordano da Giovanni. Egli ha deliberato in cuor suo e ora realizza il progetto di mettersi sulla scia del movimento battista di Giovanni. Non ci sono eventi che inducono a questo, ma c’è una volontà che dà forma ad eventi e plasma la storia: Gesù appare uomo che sa decidere e scegliere correndo i rischi del caso. Sceglie la sequela di un uomo che chiede conversione, che con parresía mette in discussione le azioni dei potenti, che annuncia l’avvento del Regno di Dio, che scuote le coscienze e che è ben lontano dai sacerdoti del Tempio gerosolimitano. Gesù sceglie con coraggio un gruppo minoritario e marginale. Ed ecco che, giunto al Giordano, avviene l’incontro tra questi due uomini, due celibi, due personalità forti, due uomini di Dio.

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Sono due persone che presentano molte somiglianze, e noi sappiamo come sia proprio tra chi è più simile e vicino che possono sorgere anche le maggiori tensioni e i più insanabili conflitti. Le invidie e le rivalità sorgono normalmente tra persone prossime, simili, vicine. La somiglianza e la prossimità (temporale e spaziale) sono condizioni dell’invidia: “Si prova invidia per le persone prossime per tempo, spazio, età, reputazione”, annota Aristotele. E Tommaso d’Aquino afferma che “proveranno invidia quelli che sono simili nel genere, nella parentela, nella statura, nelle abitudini, o nelle

opinioni”. Invidia e rivalità sorgono più facilmente tra due persone dello stesso sesso, che fanno lo stesso lavoro, che condividono gli stessi spazi lavorativi o di vita, che hanno competenze analoghe. Nell’incontro tra Gesù e Giovanni non vi è invece alcuna invidia né rivalità, sebbene i due venissero perfino confusi l’uno con l’altro. Si dice in Mt 14,1-2: “In quel tempo al tetrarca Erode giunse notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: ‘Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi’”. Sì, perché non è solo la differenza e la diversità che crea problemi, ma anche la similarità, la vicinanza, la prossimità.

Cosa caratterizza l’incontro tra Giovanni e Gesù rendendolo esemplare di un incontro nella maturità umana e nella libertà? Anzitutto la schiettezza di parola. La parola che non si zittisce, che non teme l’altro, che non è pavida e non si nasconde. Giovanni dice espressamente, in faccia a Gesù, che trova insensato che Gesù voglia farsi battezzare da lui. Anzi riconosce e dice il suo bisogno di essere battezzato da Gesù. Il coraggio della parola è il primo elemento di una relazione che voglia essere nella chiarezza e nella trasparenza. Giovanni non esita neppure a cercare di impedire a Gesù il suo battesimo: Giovanni “voleva impedirglielo” (prohibebat eum, dice il latino della Vulgata). Giovanni motiva con parole chiare la sua volontà di negare il battesimo a Gesù e argomenta dicendo che è lui stesso ad aver bisogno del battesimo che Gesù amministrerà. Non c’è paura del confronto e della tensione.

I due mettono in chiaro le loro divergenti posizioni: Gesù, la volontà di farsi immergere da Giovanni, e Giovanni, la volontà di non farlo. Ancora con la parola argomentata e motivata, non con autoritarismi, Gesù conduce Giovanni a recedere dal suo intento. E non affermando il suo punto di vista, ma associando Giovanni alla sua obbedienza al volere di Dio e alle Scritture. Il “conviene che adempiamo ogni giustizia” è richiamo a un’obbedienza di entrambi a Dio. Gesù non chiede obbedienza a sé, ma situa sé e Giovanni nell’unica obbedienza a Dio e alla sua parola. Vi è una libera sottomissione reciproca: Gesù al battesimo di Giovanni, Giovanni alla volontà di Gesù. Così si creano le condizioni per l’incontro. L’obbedienza viene qui colta nel suo aspetto maturo di azione comune e reciproca, non come atto infantile o mortificazione individuale o abdicazione alla propria volontà per adempiere quella di un altro, con i rischi di abuso, di giochi di potere e di sopraffazione e di fagocitazione che questo comporta. L’obbedienza qui è evento di comunione e di carità che consente l’adempiersi del disegno divino.

È un atto libero, non impersonale, né immotivato, ma relazionale, e che avviene nel riconoscimento reciproco. Questo incontro tra i due è poi particolarmente intenso perché essi riconoscono la vocazione peculiare l’uno dell’altro. Se Giovanni riconosce di aver bisogno di essere immerso in Spirito santo da Gesù (cf. Mt 3,11.14), Gesù riconosce che l’immersione di Giovanni viene da Dio (cf. Mt 21,25) e che il Battista è venuto nella via della giustizia (cf. Mt 21,32). Il criterio che rende libera la relazione è il fare la volontà di Dio. Gesù non si sottomette all’immersione di Giovanni per compiacerlo o per amor di sottomissione e nemmeno per amicizia, ma perché solo così viene realizzata la volontà di Dio. Questo è il criterio che deve regnare nella comunità cristiana perché i rapporti siano limpidi, casti, autentici, veramente fraterni (cf. Mt 7,21; 12,50: “Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella, madre”). Giovanni è precursore del Messia lasciando fare, acconsentendo a Gesù (cf. Mt 3,15). C’è una forma di efficacia che non è affatto connessa all’intraprendenza o all’agire, ma al non agire, al lasciar fare al Signore, all’acconsentire al Signore. Giovanni fa spazio a Gesù. La fede, come lasciar fare al Signore, è l’attivo e faticoso fare spazio al Signore. È azione su di sé, e questo tipo di azione è la più difficile. Lasciar fare al Signore è anche e simultaneamente fare spazio all’altro.

Per Giovanni il lasciar fare (al Signore) diviene concretamente un far spazio (a Gesù). Lasciare il passo ad altri è la postura della generatività. Nella relazione genitoriale, ma anche nella relazione tra maestro e discepolo, e in tante altre situazioni, viene il momento di cedere il passo e di lasciare il posto. Semplicemente perché non siamo eterni e perché altri, che non sono noi, devono subentrare e vivere, e perché la nostra presenza può divenire un ostacolo e non più un aiuto per la crescita dell’altro o di una comunità. Giovanni questo lo fa mostrando così la sua forza, la sua fede, il suo amore.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose