Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 7 Novembre 2021

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Il cuore dietro al gesto

L’odierna pagina evangelica è composta di due parti: nella prima, Mc 12,38-40, Gesù, insegnando nel Tempio (Mc 12,35), si rivolge alla folla (Mc 12,37) avvertendola di stare in guardia dagli scribi, cioè dai maestri, dai dottori della legge, gli esperti del libro sacro, uomini istruiti nelle cose che riguardano Dio. Ma non è tanto una categoria di persone che viene colpita (Marco ha appena presentato il caso di uno scriba a cui Gesù dice: “Non sei lontano dal Regno di Dio”: Mc 12,34), quanto dei comportamenti: ostentazione, ambizione, avidità. Atteggiamenti opposti alla gratuità di cui si fa modello la donna vedova che, nascostamente, senza alcuna ostentazione, compie un gesto che l’occhio attento di Gesù vede e discerne nel suo significato profetico.

Si tratta di un gesto di donazione totale che si pone agli antipodi dell’avidità: la donna dona tutto in pura perdita senza ambire alcunché. Gesù vede e rileva i comportamenti degli uni e dell’altra: stigmatizza i comportamenti dei primi e valorizza quello della donna. Come non trova giustificazioni al comportamento degli scribi, così Gesù non critica quello della donna che dona il poco, potremmo dire, il niente che ha, a quelli stessi che divorano le case delle vedove (cf. Mc 12,40). Dietro al gesto, Gesù vede il cuore. È operazione audace e rischiosa quella di risalire da un gesto all’intenzione, ma Gesù, con parresía, lo compie. E le sue parole fanno di un gesto invisibile un segno di donazione totale, mentre rivolgono una critica sferzante a gesti religiosi da tutti notati e apprezzati. Gesù espone la sua interpretazione senza filtri, con la forza disarmante che viene dalla semplicità e dall’adesione alla realtà.

Questa interpretazione è un insegnamento (Mc 12,38) di Gesù, dunque, ha a che fare, come spesso l’insegnamento in Marco, con il Regno di Dio. Gli scribi, dice Gesù, amano essere visti, salutati, riveriti, amano l’esibizione, i primi posti. Tutto questo non riguarda solo una categoria di persone distante da noi, ma ci interpella circa la voracità con cui vogliamo che gli altri ci vedano, ci onorino, ci riconoscano, ci omaggino. Vi è qui un richiamo alla vanità e vacuità in cui le nostre vite possono cadere, vanità e vacuità che sono inganno di se stessi ancor prima che degli altri, sono un nutrire la continua ricerca di conferme visibili e tangibili all’immagine di sé che ci appaga. Vanità e vacuità che a volte celano la disperazione di chi ha bisogno dell’approvazione altrui per sapere di avere un valore, per continuare ad esistere. Persone che vivono dell’immagine che esibiscono agli altri.

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Le parole di Gesù, in questa pericope, nascono dal suo sguardo. Sguardo che anzitutto vede e giudica il comportamento degli scribi e diviene parola critica e dura verso di loro e di ammonimento alla folla e ai discepoli: “Guardatevi dagli scribi”. È come se stesse ripetendo ciò che già aveva detto ai discepoli: “Tra voi non sia così”, “Voi non fate così” (cf. Mc 10,43). Per non tradire lo sguardo, la parola di Gesù nei confronti degli scribi deve essere dura, impietosa, non solo critica, ma anche forte e violenta. Questa parola può sembrare anche ingiusta, generalizzante, insultante, dunque può risultare scandalosa per chi è estraneo al cuore di Dio e alla sua ira e al parlare profetico (altrove Gesù apostrofa scribi e farisei come razza di vipere, sepolcri imbiancati, ipocriti, con invettive decisamente forti), ma è la parola che osa parlar male del male, che ha il coraggio della verità di fronte a chi abita la menzogna.

Gli scribi sono persone con una funzione religiosa importante: a loro sono riservati i primi posti nei ricevimenti e nelle riunioni liturgiche ed essi amano farsi riverire e omaggiare, esibiscono i loro paramenti e ostentano la loro preghiera. Qual è lo sguardo degli scribi? In realtà sono coloro che amano farsi vedere: essi cercano e vedono solo lo sguardo degli altri su di loro e volendo essere visti e ammirati diventano ciechi su di sé. La loro funzione diviene la loro finzione: il loro posto di autorità e responsabilità religiosa diviene funzionale alla loro finzione e la loro finzione nutre, sostiene e perpetua il loro posto di autorità che è posto di visibilità.

E così la loro menzogna li rende divisi tra ciò che sono in verità e che, menzogna dopo menzogna, ormai faticheranno sempre più a incontrare e a riconoscere, e la loro immagine, la maschera esibita e offerta. Solo una parola forte, penetrante, incisiva, che fa male, può – forse – scuotere chi è avvezzo alla menzogna. Oppure un no anche silenzioso, ma determinato, risoluto, incrollabile. Perché la menzogna, che affascina per il potere di cui gratifica il menzognero – il potere di ricreare la realtà, il potere di dare una certa immagine di se stessi, il potere di dominare gli altri e di usarli – arriva in realtà a schiavizzare il menzognero cosicché per sopravvivere il menzognero deve obbedire e andare fino in fondo al proprio mentire. Fino a non saper più distinguere tra vero e falso, tra illusione e realtà, fra verità e menzogna. Ecco dunque che una parola forte e cruda può – forse – incrinare l’armatura della parola e della postura menzognera divenuta prigione del menzognero. Certo, simili parole scandalizzano ma, in realtà, è l’amore da cui nascono che provoca scandalo. Amore che anche di fronte alla menzogna e alla doppiezza non si arrende e grida. Molto più facile l’indifferenza bonaria che non scomoda, senza conflitti e senza parole critiche.

Ma lo sguardo di Gesù sa anche vedere come la vedova getta le sue monete nel tesoro e diviene parola che convoca solennemente i discepoli perché si mettano in ascolto e in contemplazione del magistero di quella donna. Tutto è sotto il segno dello sguardo di Gesù: “Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte” (Mc 12,41). Sguardo che introduce la scena dominata da polarità: il gruppo maschile e la donna, i molti e la donna sola, i ricchi e la povera, gli oppressori e la donna oppressa, quella che fa parte dello strato più basso della società e quelli che hanno onorabilità, reputazione, importanza, e possono nutrire le ambizioni di essere sempre al primo posto, in vista, nei primi posti, davanti agli altri. Primi posti, primi seggi: quella parola “primi” è la stessa che Gesù ha ribaltato con l’adagio che “i primi saranno ultimi” (cf. Mc 10,31).

Inoltre se gli scribi amano farsi vedere mentre compiono azioni religiose e cultuali, Gesù guarda come la folla getta le monete nel tesoro e così, Gesù vede il dono della donna che rifugge ogni ostentazione. Gesù vede l’invisibile, vede cosa c’è dietro all’atto di donare una cifra irrisoria, infima. Dono che può rappresentare agli occhi di qualcuno il punto più basso cui giunge l’abuso nell’ambito dello spirituale: condurre una persona a interiorizzare e a far proprio il comportamento che l’abusatore vuole da lei. Quella è la perfetta riuscita dell’abuso. Il dono della donna, il suo obolo, può essere giudicato inutile, ingiusto, perfino stolto (cosa aggiunge ai destinatari delle offerte una somma di denaro così insignificante? Mentre per lei è tutto ciò che possiede), eppure Gesù fa di quel gesto un atto magisteriale e il vangelo ci mette ancora oggi alla scuola di questa povera donna e del suo gesto.

Questa donna diventa l’icona dell’autentico donatore, il simbolo della gratuità e della follia dell’amore. Un altro sguardo gettato sul dono della donna potrebbe rilevare la sua assurdità: si potrebbe dire che la donna, nella sua semplicità, è prigioniera di un sistema che la spinge a dare il poco che ha per vivere, all’istituzione di cui sono complici gli scribi che divorano le case delle vedove. Del resto, con le sue parole scorrette e scomode, Gesù aveva già qualificato il tempio come “spelonca di ladri” (Mc 11,17). Ma appunto, lo sguardo di Gesù vede il cuore, la qualità del cuore della donna. E Gesù discerne un cuore che ama in modo totale il Signore. Gesù coglie ciò che è essenziale e dà senso al vivere: l’amore. L’amore che può condurre alla follia, a bruciarsi, a farsi dono, a spendere la vita senza gratificazioni. Questa donna, dice Gesù “ha gettato tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,44). Nessuno è così povero da non aver nulla da dare ad altri. Questa donna diviene così, di fatto, profezia del gesto di donazione di Gesù stesso, il gesto del dono della vita che illumina definitivamente tutta un’esistenza spesa nell’amore.

Questa vedova dona a partire dalla sua mancanza, ek tês ysteréseos autês, de penuria sua (Mc 12,44). È a partire dalla sua indigenza e dal suo non-avere che lei dona. Lei dona il niente che ha. Amare è far dono all’altro della propria povertà. Al tempo stesso, quel dono di niente, che parte dal niente, è dono di tutto, perché è dono di sé. Del resto, la dimensione simbolica del dono ci dice che, quale che sia il dono che si fa, l’intenzione è di donare se stessi e creare, attraverso il dono, un incontro e una relazione. Se la comunità è l’insieme di coloro che sono uniti dal munus, cioè dal dono che si fa, dono che è anche compito e dovere, allora la maniera in cui si edifica la comunione della comunità è la condivisione delle povertà di ciascuno.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose