Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 7 Marzo 2021

Il Tempio alleggerito

Il testo evangelico di questa III domenica di Quaresima si apre con l’annotazione che Gesù, in prossimità della Pasqua, si reca a Gerusalemme (Gv 2,13). Si tratta della prima delle diverse salite a Gerusalemme che Gesù compirà secondo il IV vangelo. Secondo i Sinottici, invece, vi è salito un’unica volta e al termine del suo ministero e della sua vita. Qui siamo all’inizio del ministero (e del vangelo) e il testo già si propone come anticipatore degli eventi della passione, morte e resurrezione di Gesù. In effetti, alla domanda sul segno che fonda la sua autorità per compiere i gesti profetici che ha operato nel Tempio, Gesù risponde: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). E il verbo usato, eghéiro, significa anche rialzare, ma è tipico per indicare la resurrezione. Si tratta di un annuncio pasquale, come specifica il narratore: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,21). Il testo ha dunque una qualità rivelativa: il Cristo morto e risorto è il tempio escatologico, il luogo di incontro, alleanza e comunione tra Dio e uomo. Inoltre, nell’evento pasquale Cristo è la vittima e l’offerente. Egli, che dal Tempio non scaccia solo i cambiavalute, ma anche gli animali per i sacrifici, morirà come agnello pasquale a cui non è spezzato alcun osso (cf. Gv 19,33.36) e deporrà liberamente la propria vita per riprenderla di nuovo (cf. Gv 10,17-18).

Ma se questo è il significato teologico che Giovanni accorda all’episodio, storicamente qui Gesù si comporta da profeta. Gesù denuncia la situazione deteriorata del Tempio. Non dice che il Tempio non deve esistere, ma che il Tempio è stato pervertito: dal significato che aveva in origine, si è mutato in altro. Ora è “un mercato” (Gv 2,16), “un covo di briganti” (Mt 21,13; Mc 11,17; Lc 19,46)), un centro di potere economico e di malaffare, ben più che di autenticità religiosa. La parresía di Gesù nasce anzitutto dal semplice vedere, dal vedere e dare il nome alla situazione: senza mediazioni, senza addolcimenti, senza scusanti, senza abbellimenti. Il Tempio è stato reso un “mercato”. Da domus Patris mei, dice Gesù, il Tempio è strato reso domus negotiationis. Ci si può chiedere: com’è avvenuto questo? Com’è possibile che questo sia avvenuto? E spesso noi stessi ci domandiamo come sia possibile che nello spazio ecclesiale e nell’alveo di una comunità avvengano certe dinamiche di pervertimento, di deviazione, di stravolgimento dell’intento originario. Ma dobbiamo subito chiederci, in riferimento al testo evangelico: e se non ci fosse stata la voce profetica di Gesù a denunciare questo fatto, disponendosi a pagarne il prezzo, tutto sarebbe andato avanti come sempre? Non ci sarebbe stato nessun altro che avrebbe levato la voce? Nessuno avrebbe detto nulla? Sì, anche le istituzioni e le creazioni più sante conoscono deterioramenti, pervertimenti e allontanamenti dall’intenzione originaria. E necessitano di correzioni, di riforme, di essere riportate al loro senso secondo Dio, al loro senso evangelico. Necessitano di una purificazione, di una revisione più o meno radicale.

Cosa fa dunque Gesù? Alleggerisce il Tempio: caccia via, fa uscire, spoglia. Non aggiunge, non aumenta, non accresce, ma toglie, sottrae, scaccia. Non è diverso per le nostre vite personali e comunitarie. Non è l’aver poco che ci fa paura, ma l’avere meno dopo che ci si era abituati ad avere tanto, è il diminuire che ci fa paura e che rifiutiamo, è l’impoverimento, più che la povertà, che noi temiamo. E si può avere tanto sia su un piano materiale che su quello spirituale e semplicemente umano. E, come ricorda il Salmista, “l’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal 49,21). Vi è a volte un accecamento che ci impedisce il discernimento. Gesù, nella sua lucidità, annuncia che del Tempio non resterà pietra su pietra che non sia distrutta: solo la fine, anche rovinosa, di elementi che pure erano stati portanti della nostra vita, può a volte aiutarci a un rinnovamento, a una rinascita. Il testo lascia intendere che i discepoli al momento non capirono. Solo dopo, grazie al ricordo della Scrittura, diedero un senso al comportamento di Gesù, solo dopo essi contestualizzarono il comportamento violento di Gesù che addirittura si costruì una sferza di cordicelle per scacciare tutti fuori dal Tempio, e compresero il suo gesto alla luce delle Scritture: “Lo zelo della tua casa mi divorerà” (Sal 69,10). Gesù è mosso da passione, è divorato da zelo per la casa del Signore, è abitato da pathos per il luogo santo ed è indignato e scandalizzato dall’uso che ne viene fatto (Gv 2,17). La parresía comprende anche questi atteggiamenti basilari, anzi trova proprio in questa condivisione del pathos di Dio l’elemento senza il quale non potrebbe nascere il comportamento profetico. Ma Gesù ha piena coscienza del prezzo delle sue azioni. Egli è un vero profeta e paga con la sua persona il prezzo delle parole che pronuncia e delle azioni che compie. Ecco allora che Gesù parla della distruzione del suo corpo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). Qui Giovanni impiega il vocabolo naòs, che designa non tanto il complesso intero del Tempio, per cui Giovanni utilizza piuttosto il termine ieròn, ma indica il Santo dei santi, il luogo più interno del Tempio, il penetrale. Si assiste così al passaggio dal luogo di pietre al luogo della Presenza, dal tempio di Gerusalemme al corpo di Gesù, da un ordine di tipo cultuale a uno di ordine personale e relazionale, dal meccanismo di delega dell’offerta di un animale alla dinamica dell’offerta personale fatta con libertà e per amore.

E ciò che è centrale non è appunto tanto la distruzione, ma sono l’amore e la libertà. L’amore e la libertà con cui Gesù deporrà le sue vesti, con cui amerà i suoi fino alla fine, con cui si inchinerà davanti a Giuda e gli laverà i piedi, con cui andrà al monte degli Ulivi quasi facilitando il compito del traditore, e dunque non opponendosi più alla prospettiva della sua morte violenta. Ma anche questo riferimento al corpo di Gesù, velato dietro al rimando al naòs, al santo, i discepoli lo compresero solo più tardi, dopo la resurrezione e l’effusione dello Spirito (Gv 2,22).

Ed ecco che il testo liturgico si chiude con un’ultima annotazione: “Molti, vedendo i segni che Gesù compiva, credettero nel suo nome, ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti, conosceva quello che c’è nell’uomo” (Gv 2,23-25). C’è una fede di cui Gesù non si fida. C’è una fiducia posta in lui di cui Gesù diffida. Gesù discerne e fa emergere la fede degli altri, Gesù ispira e suscita fiducia, ma sa anche discernere atti di fiducia infondati e che non meritano alcun credito; Gesù ha fiducia ma anche discernimento, e dunque smaschera la fiducia in lui interessata. Fiducia interessata è quella che nasce dai prodigi fatti da Gesù. Chi pone in lui fiducia solo per i segni da lui compiuti in realtà non è interessato a seguire lui, ma a ottenere qualcosa da lui, a guadagnare qualcosa. La fiducia in Dio non fa nascere in Gesù solo fiducia negli umani, ma anche vigilanza, lucidità e atteggiamenti critici. Alcuni “credettero nel suo nome vedendo i segni che faceva” (Gv 2,23) e Gesù non pone fiducia nella loro fede, non li sente come affidabili. Questa sfiducia è motivata dal fatto che Gesù conosce, sa, discerne “ciò che c’è nell’uomo” (cf. Gv 2,25). All’epoca di Gesù, un tratto caratterizzante il profeta era la cardiognosi, ovverosia, la capacità di leggere i pensieri del cuore. Non si tratta di nulla di magico o di straordinario, ma solo di intelligenza umana affinata dall’esercizio e che sa discernere e penetrare, intuire e comprendere. Gesù sa leggere nell’altro, sa coglierne i movimenti profondi, sa intuire ciò che l’altro sta pensando e le motivazioni nascoste del suo parlare e del suo agire. La conoscenza che Gesù ha del cuore di tanti lo porta a discernere anche le motivazioni che li animano e dunque a coglierle in verità. E questa verità, a volte, è impietosa. Così Gesù diffida di un’adesione a lui fondata semplicemente sull’attesa di miracoli. La sua capacità di fiducia non lo porta a farsi usare da chi vorrebbe seguirlo solo per averne dei vantaggi: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). Gesù diffida di chi lo cerca per farne un capo politico, diffida di ciò che sarebbe un riconoscimento della sua potenza o addirittura qualcosa di conforme al volere divino e che può rendere più efficace la sua missione tra gli uomini: “Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò sul monte, lui da solo” (Gv 6,15). Gesù non accorda fiducia alle folle che stravolgono i suoi gesti di gratuità in un meccanismo di scambio, in cui esse accordano potere a chi dona loro cibo e sussistenza. Gesù non agisce con la logica di governatori e re che chiedono potere in cambio di elargizioni di beni. Gesù non agisce come i capipopolo seduttori e manipolatori che abbisognano di un seguito per essere i leader. Gesù rifiuta di essere fatto re perché per lui non esistono sudditi, ma solo fratelli. La sua parresía è credibile proprio per questa sua onestà. Ed è una franchezza che non teme il giudizio altrui, scoglio, questo, su cui spesso si incagliano i nostri propositi di parola e di azione audace e libera.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


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