Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 7 Maggio 2023

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Vedere il Figlio per vedere il Padre

Il Cristo risorto e salito al Padre (vangelo: Gv 14,1-12) è il fondamento dell’edificio spirituale che è la chiesa (seconda lettura: 1Pt 2,4-9): è in riferimento a lui, con la preghiera che guida il discernimento, che i credenti affrontano i problemi della comunità cristiana cercando di far regnare il suo spirito nella vita della comunità (prima lettura: At 6,1-7). Il vangelo afferma che Gesù è l’umanità di Dio, che il volto divino che nessuno poteva vedere, pena la morte (“nessun uomo può vedermi e restare vivo”: Es 33,20), ora può essere contemplato nel volto di Gesù di Nazaret: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), dice Gesù a Filippo. Vedere il volto di Dio e pronunciarne il nome sono interdetti nell’AT, perché significano impossessarsi di Dio, avere un potere su di lui, governare Dio e usarlo per i propri fini. Significano cioè divenire idolatri.

Il passaggio spirituale che la fede deve fare attraverso l’umanità di Gesù è la salvaguardia dall’idolatria. Il senso profondo dell’impoverimento di Dio, del suo abbassamento, della sua gloriosa kenosi, del suo libero lasciare i privilegi divini, del suo presentarsi come uomo tra gli uomini, del suo mostrarsi nel volto del rabbi Gesù di Nazaret, apre per l’uomo la strada alla fuoriuscita dall’idolatria. O almeno, è l’indicazione del percorso che porta alla liberazione dall’assolutizzazione del penultimo, dalla brama di possesso, dalla tirannia dell’ego. Siamo di fronte allo straordinario cristiano: Dio nel volto di un uomo. Anzi, all’ossimoro cristiano: Dio? L’umanità di Gesù di Nazaret. Per vedere Dio occorre seguire l’uomo Gesù. Il Cristo risorto è il fondamento della chiesa, e anch’essa, fondata sull’ossimoro della rivelazione cristiana, si presenta nella seconda lettura come un ossimoro: voi siete “pietre vive” (1Pt 2,5).

Pietre, ma viventi. Che poi il Cristo risorto sia “pietra scartata dai costruttori, ma scelta da Dio e divenuta pietra angolare” (1Pt 2,7), è importante per quanti si trovano a vivere “vite di scarto”, a essere rigettati ai margini della società o del mondo o del loro gruppo o della chiesa. Dio sceglie ciò che nel mondo è disprezzato e insignificante, sceglie “la spazzatura del mondo” (1Cor 4,12) per confondere i costruttori mondani e le loro costruzioni che si reggono su criteri di efficienza e performatività, che richiedono conformismo e omologazione, che vogliono che le pietre siano morte e non vive. Una pietra viva, fedele eco del Crocifisso Risorto, è un ossimoro intollerabile per la razionalità mondana e abbisogna di essere scartata.

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Il Cristo che lascia i suoi discepoli e sale al Padre, chiede loro la fede (cf. Gv 14,1.10.11.12); la chiesa fondata sul Crocifisso Risorto è l’insieme dei credenti chiamati a “offrire sacrifici spirituali graditi a Dio” (1Pt 2,5): il riferimento è alla liturgia, ma più estesamente al culto nell’esistenza quotidiana, a fare del quotidiano il luogo dell’adorazione di Dio in cui il credente offre il proprio corpo in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1); i problemi organizzativi della comunità (come appare dalla prima lettura), che rischierebbero di soffocare ciò che è essenziale nella chiesa, devono essere risolti in modo da far sempre emergere il primato della Parola di Dio e il suo servizio.

La predicazione stessa deve sempre essere innestata nella preghiera: “Di che utilità potrebbe mai essere una predicazione disgiunta dalla preghiera? In primo luogo viene la preghiera, e dopo la parola, come dicono gli apostoli: ‘Noi ci dedichiamo alla preghiera e al ministero della parola’ (At 6,4)” (Giovanni Crisostomo). Qual era il problema sottostante al testo di At 6? Nella chiesa di Gerusalemme si era creata una tensione fra due gruppi di cristiani. I cristiani ellenisti si lamentavano nei confronti di quelli di provenienza ebraica per il fatto che le loro vedove erano trascurate, discriminate, al momento della distribuzione dei beni per i poveri. Si trattava di un problema gestionale, di amministrazione dei beni, di organizzazione.

Quest’opera era affidata, fino ad allora, agli apostoli. Si procedette allora sinodalmente con convocazione e riunione della comunità, proposta presentata dagli apostoli e decisione presa insieme. Fu stabilita la priorità, “preghiera e servizio della parola” (At 6,4), a cui si dedicarono gli apostoli, mentre al “servizio delle mense” (cf. At 6,2) avrebbe provveduto un gruppo di “sette” (At 6,5-6) appositamente istituito. Il testo sembra una rilettura in chiave di dinamiche ecclesiali del testo di Lc 10,38-42 in cui Gesù è alle prese con Maria che ascolta attentamente le sue parole e con Marta tutta presa e indaffarata per preparare la tavola.

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Nel IV vangelo Gesù ha già annunciato il suo andarsene ai discepoli (Gv 13,33; cf. 8,21). E questo provoca in loro il turbamento. Come provocherà tristezza (Gv 16,6.22). Il turbamento è uno stato d’animo che esprime lo spaesamento, l’incertezza e il timore di fronte a una perdita, a una morte, a un lutto. È turbato Gesù quando vede Maria piangere davanti a Lazzaro defunto (Gv 11,33) e quando intravede l’avvicinarsi dell’ora della propria morte (“Ora l’anima mia è turbata”: Gv 12,27). Gesù è poi turbato di fronte a un altro tipo di morte: egli è sconvolto e amareggiato quando annuncia il tradimento di uno dei Dodici (Gv 13,21).

E ora chiede ai discepoli di far vincere la fiducia in lui e in Dio sul turbamento che attanaglia il loro cuore. In 14,27 ribadisce: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. Gesù chiede ai discepoli e a noi qualcosa che spesso ci sembra impossibile. Noi spesso assolutizziamo ciò che sentiamo e proviamo, e anche ciò che pensiamo. E riteniamo che si tratti di dimensioni intoccabili che coincidono con la nostra identità. Gesù chiede di essere così coscienti di sé da saper leggere e riconoscere i propri moti interiori, chiede ascolto e intelligenza di sé, perché se non sappiamo riconoscere i nostri moti interiori, come potremo ascoltare e aiutare chi si rivolge a noi in preda a smarrimento e paura, a turbamento e angoscia? Gesù chiede che si sappia riconoscere ciò che ci abita: e qui parla di turbamento. Guai a rimuovere o a negare questi moti (ciò che si rimuove, prima o poi ritorna e chiede il conto), ma Gesù chiede anche di essere così liberi da far regnare su di essi la fiducia nella sua promessa.

È il lavoro a cui sono chiamati anche i cristiani che spesso vivono di reazioni emotive e psichiche, di umoralità, di infantilismi, di immaturità, di reazioni stizzite, di rancori, di scrupoli, di rimorsi, di conflitti per motivi banali, di insofferenze e fastidi reciproci e non arrivano ad evangelizzare le profondità, il cuore, ovvero ad avere quella duttilità che è necessaria per vivere insieme con altri. Duttilità che richiede di avere una giusta misura di se stessi, di non nutrire un’idea troppo alta di sé o una sicurezza eccessiva in se stessi. Siamo chiamati a fare unità in noi stessi, ma non in modo fittizio, nascondendo, rimuovendo o non accordando importanza a sentimenti e stati d’animo che riteniamo che non debbano albergare in noi.

Questa unità la si fa con la grande umiltà di chi si conosce e dice di sì ai propri moti interiori, non sempre particolarmente nobili o elevati, ma fa coabitare con essi i sentimenti e i pensieri che furono in Gesù, e arriva ad assumere a poco a poco i modi del Signore, i gesti e le forme del suo vivere. Innesta il pensiero di Cristo, il noûs di Cristo (1Cor 2,16), il sentire di Cristo, il suo frónema (Fil 2,5) nel proprio pensare e sentire.

Si tratta di far propria la modalità con cui Gesù ha vissuto la sua umanità. E colpisce che, mentre Gesù annuncia ai discepoli il suo esodo verso il Padre, egli rivolge loro una promessa che è anche una nuova chiamata che riprende quasi letteralmente le parole con cui li ha chiamati a seguirlo nel suo cammino storico. Se Gesù aveva stabilito i Dodici “perché stessero con lui” (Mc 3,14) ora dice loro – ed è una promessa che lui fa a loro e una responsabilità a cui li chiama – che egli va a preparare per loro un posto affinché possano essere dove anche lui è (Gv 14,2-3). E rivela che il cammino per trovarsi con lui, è vivere in lui e come lui.

A chi oppone resistenze alla sua promessa e alla sua chiamata protestando: “non conosciamo la via”, Gesù risponde: “io sono la via” da seguire, la mia vita è la traccia da percorrere. “Vi ho dato un esempio affinché, come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15), ha appena detto Gesù. E ancora: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). E davanti a Filippo che gli pone come condizione: “Mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8), Gesù si stupisce per il tanto tempo passato insieme che non è bastato a Filippo per conoscerlo in profondità.

E gli dice: se non hai capito, se le parole che ho detto non ti sono bastate o le hai travisate, credi almeno per le opere, per ciò che ho fatto (Gv 14,11). Ecco cosa vuol dire in Giovanni “vedere il Figlio”: avere l’intelligenza del mistero della sua persona a partire dalle sue parole e dai suoi gesti; ed ecco cosa vuol dire “vedere il Padre”: credere fino alla convinzione e alla certezza il mistero del Dio Padre. E le parole finali di Gesù attestano la potenza della fede. La fede infatti consente alle energie della resurrezione di dispiegarsi e operare nel credente. “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi” (Gv 14,12).

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose