Non temere, piccolo gregge
Il brano evangelico odierno (Lc 12,32-48) riunisce diverse parole (detti, sentenze, parabole) rivolte da Gesù ai suoi discepoli (12,22). Esso si apre con la frase che Gesù rivolge al “piccolo gregge” esortandolo a “non temere” perché il Padre si è compiaciuto di dare loro il Regno (12,32). Chiamando “piccolo gregge” la comunità dei suoi discepoli, da un lato Gesù ne rileva l’esiguità numerica, come anche l’irrilevanza, la pochezza sul piano storico, dall’altro però rinvia al pastore del gregge, al Dio che sempre ha guidato e protetto il suo popolo, anche quando questo era un piccolo “resto”. Ecco dunque l’invito: “Non temere” (12,32), che si pone in linea di continuità con le esortazioni a “non preoccuparsi” del corpo, del cibo, del vestito, perché Dio si prende cura delle sue creature anche più piccole, dei corvi e degli uccelli, dei gigli e dell’erba dei campi e dunque: “Quanto più farà per voi … Quanto più degli uccelli valete voi” (12,28.24). Il testo è un invito alla fiducia ed è come se Gesù dicesse: la vostra piccolezza non sia per voi motivo di paura o di sconforto, perché il Regno di Dio non è questione di visibilità e di grandi numeri, anzi, “il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione” (17,20). Ora, poiché la questione del numero è spesso ancora oggi al cuore dei patemi pastorali di tanti nella chiesa, occorre anche chiedersi: qual è il numero che distingue tra piccolezza e non più piccolezza? Gesù ricorda che, dove due o tre sono riuniti nel suo nome, egli è in mezzo a loro (cf. Mt 18,20). Le parole di Gesù ai discepoli vanno allora comprese come una messa in guardia contro l’aspirazione a essere grandi e importanti, forti e potenti, ammirati e considerati, insomma a cercare vie mondane di riuscita ecclesiale. Significativa, a questo proposito, la lezione della piccola Teresa di Lisieux: “La santità non risiede in questa o quella pratica di pietà, ma in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli nelle braccia di Dio, coscienti della nostra debolezza e fiduciosi nella sua bontà di Padre. Ciò che piace a Dio nella mia anima è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia. Non temere: più sarai povera più Gesù ti amerà”.
Nella Bibbia poi, l’espressione “non temere” è una promessa che invita alla fiducia, ben più che un comando da obbedire ciecamente. Dunque, l’eventuale paura della piccolezza, del non contare nulla, va vinta non con accumulo di beni e ricerca di posizioni di potere, con presenzialismo e acquisizione di visibilità, ma con una sempre più profonda fiducia nel Signore che comporta anche lo spogliarsi di ciò in cui si potrebbe riporre fiducia e trovare rassicurazioni mondane. In verità, il Regno si manifesta nella piccolezza di un povero gruppo di uomini e donne, animato però da una grande fede. Proprio quella piccolezza abitata dalla fede rende i discepoli di Gesù il luogo dove Dio può regnare. E perché il regnare di Dio possa sempre più trasparire nel gruppo dei discepoli, ecco che Gesù esorta alla liberalità, alla generosità, al dare in elemosina: condividere i beni è per Luca un segno concreto del regnare di Dio nella comunità dei credenti. Se poco prima aveva messo in guardia dall’accumulare tesori per sé e non arricchire davanti a Dio (12,21), ora Gesù invita a crearsi un tesoro nei cieli, non ad arricchire su questa terra accumulando beni che illudono solamente di sicurezza, esposti come sono al logoramento e alla precarietà: “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma” (12,33). Nelle parole di Gesù si sente l’eco della pratica dell’elemosina, così importante nel giudaismo: “In proporzione a quanto possiedi, fa’ elemosina, secondo le tue disponibilità; se hai poco, non esitare a fare elemosina secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l’elemosina libera dalla morte e impedisce di entrare nelle tenebre” (Tb 4,8-10). La sentenza proverbiale finale che accosta tesoro e cuore (12,34) indica che la radicalità a cui Gesù sta invitando i discepoli è di profondità e convinzione. Non si tratta di mettere in atto dei gesti certamente eclatanti, ma tutto sommato esteriori, bensì di orientare volontà e desiderio, la totalità della persona, verso il Regno, verso la vita vissuta evangelicamente. Perché il cuore si dirige là dove va il suo desiderio. Riccardo di San Vittore diceva qualcosa di analogo scrivendo: Ubi amor, ibi oculus. Lo sguardo è attratto da ciò che ama.
A questo punto il testo presenta tre parabole (12,36-38; 39-40; 42-46) centrate sul tema della vigilanza in vista della venuta del Signore. Nella redazione lucana esse sono introdotte da un’esortazione alla vigilanza (12,35), inframmezzate a un intervento di Pietro (12,41), concluse da due sentenze che rielaborano i temi della fedeltà o infedeltà e della vigilanza o mancanza di vigilanza emersi dalle parabole stesse (12,47-48).
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L’immagine dei “fianchi cinti” (12,35) evoca la partenza frettolosa dall’Egitto dei figli d’Israele, l’esodo avvenuto di notte (Es 12,11). E alla notte allude Luca parlando di “lampade accese”. Sollevare i lembi del lungo abito orientale e legarlo ai fianchi con una cintura rendeva più agevole il cammino. Sembra che Gesù voglia esortare a mettersi in cammino, a fare un esodo, ma in realtà si tratta di un cammino in profondità, più che in estensione, un viaggio che rende pronti a ricevere Colui che viene. Il vero cammino lo fa il Signore che viene: la venuta del Signore è intravista dietro alle immagini del padrone che torna dalle nozze (12,36.37.38), del ladro che viene a scassinare la casa (12,39) e del padrone di casa che giunge nell’ora in cui il suo servo non se lo aspetta (12,12,46) ed è apertamente annunciata nel v. 40: “Anche voi tenetevi pronti perché nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”. Il centro dell’annuncio delle tre parabole è dunque la venuta del Signore e il nome del cammino a cui sono chiamati i discepoli è vigilanza. Gesù ha già dato indicazioni affinché la vigilanza non sia ostacolata da inutili ingombri quali la cupidigia (12,15), le preoccupazioni (12,22.26) e le paure (12,32) che occupano il cuore e tolgono libertà. Il cuore invece, cioè il sé della persona, dunque i pensieri, le parole, i gesti, i rapporti, siano orientati a Cristo, per essere pronti alla sua venuta. La domanda che emerge dal testo per ogni credente è: dov’è il tuo cuore? E dunque, qual è il tuo tesoro?
La parabola dei servi vigilanti (12,36-38) sembra essere la versione narrativa di una beatitudine (cf. 12,37: “beati quei servi …”; 12,38: beati loro”) che potrebbe suonare così: “beati i servi vigilanti, perché il Signore stesso si farà loro servo”. Il capovolgimento di valori presente nelle beatitudini è qui espresso nella paradossale figura del padrone che rientra a casa, anche a notte fonda, e, trovando svegli i suoi servi per aprirgli la porta e accoglierlo per salutarlo, lui stesso si mette a servirli. Ma questa è la logica di Gesù, la logica che capovolge le logiche mondane e che dovrebbe vigere nella comunità cristiana: “Chi è più grande? Chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (12,27). Così, dopo aver esortato i discepoli a cingersi le vesti, ora, nell’immagine del padrone che si cinge le vesti per servire a tavola i suoi servi, vediamo il Signore stesso che accoglie al banchetto del Regno i suoi servi fedeli. Il Signore si fa servo dei suoi servi. Le due parabole successive, quella del ladro (12,39-40) e quella del servo che può vivere la fedeltà ma anche l’infedeltà (12,42-46; cf. 42-44 e 45-46), hanno al loro cuore l’affermazione dell’incertezza dell’ora della venuta del Signore. Due elementi mi paiono interessanti nella seconda parabola. È la stessa persona, lo stesso servo che sa vivere la fedeltà ma anche l’infedeltà, che sa essere misurato e umano, ma anche divenire arrogante, prepotente e violento. Non siamo di fronte alla personificazione di fedeltà e infedeltà in due personaggi differenti, ma alla possibilità di bene e di male da parte della stessa persona. Inoltre, ciò che conduce il servo a un comportamento abusante nei confronti degli altri servi è la constatazione del ritardo del padrone: “Il mio padrone tarda a venire” (12,45). Vi sarà anche, come dicono molti esegeti, il problema del ritardo della parusia che turbava le prime comunità cristiane, ma io credo che dietro vi sia anche il rimando al peccato di idolatria in cui cadde Israele quando Mosè tardava a scendere dal monte dove aveva ricevuto le tavole della Legge. Poiché “Mosè tardava a scendere dal monte” (Es 32,1), i figli d’Israele caddero nel peccato di idolatria, il peccato del vitello d’oro. Dove il vitello (o torello) d’oro simboleggia potere e ricchezza, le due grandi tentazioni da cui Gesù mette in guardia i suoi discepoli proprio nel capitolo dodicesimo di Luca. Va detto inoltre che il titolo di “amministratore” (12,42), presente nell’ultima parabola, è usato altrove per indicare i responsabili ecclesiali nelle comunità paoline (1Cor 4,2; Tt 1,7). Riceve così risposta la domanda di Pietro: “Questa parabola la dici per noi o anche per tutti?” (12,41). Per Gesù è chiaro: essa vale per tutti, ma in maniera speciale per chi riveste ruoli di responsabilità nelle comunità cristiane.
A cura di: Luciano Manicardi
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Per gentile concessione del Monastero di Bose