Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 6 Settembre 2020

Ascolto, correzione, perdono

Il brano evangelico di questa domenica è inserito in quel capitolo diciottesimo del primo vangelo che contiene il cosiddetto “discorso ecclesiale” o “comunitario”. Discorso che ci fa toccare con mano alcune difficoltà che si presentavano nelle comunità giudeo-cristiane negli anni ottanta del I secolo d. C. Ma che ci fa entrare anche all’interno delle complesse e sottili dinamiche di una comunità ecclesiale, in cui i problemi principali sono normalmente di tipo relazionale. In una comunità vi sono dei forti e dei deboli, dei “piccoli” (Mt 18,6.10), cioè dei credenti semplici che possono subire scandali e trovare inciampo nel loro cammino di sequela a causa di comportamenti troppo disinvolti da parte di chi è più forte o comunque mosso da una coscienza di fede diversa e più libera. Di certo, una preoccupazione che deve abitare la comunità cristiana e soprattutto i suoi pastori, è che chi si smarrisce, non arrivi a perdersi. La parabola della pecora smarrita svela questa preoccupazione (Mt 18,12-14).

Subito dopo aver narrato questa breve parabola, Gesù parla del comportamento intracomunitario nei confronti del fratello che pecca. Troviamo qui l’eco di una pratica disciplinare che cercava di regolare e risolvere situazioni comunitarie ferite da peccati avvenuti all’interno della comunità. I vv. 15-17 si presentano come una sorta di indicazione di percorso, di regola di comportamento nei confronti del peccatore. Si tratta di indicazioni che manifestano la loro origine nell’esperienza vissuta, in situazioni che sono insorte e che hanno interrogato i responsabili delle comunità e hanno condotto all’elaborazione di un processo disciplinare ispirato a gradualità, a discrezione e a rispetto. Ma anche a fermezza. Il ricorrere per cinque volte in tre versetti di proposizioni condizionali (“se tuo fratello … se ti ascolterà … se non ascolterà … se non ascolterà costoro … se non ascolterà neanche l’assemblea”) esprime la riflessione ecclesiale su casi che si sono verificati e che hanno impegnato le comunità a dotarsi di regole, di limiti, di procedure per arginare comportamenti che, qualora fossero degenerati o divenuti consuetudine, avrebbero rovinato la comunità rendendo impossibile la vita ecclesiale. Sì, perché anche una comunità ecclesiale ha dei limiti, delle possibilità limitate, delle debolezze e non è onnipotente. Di fronte ai casi che possono verificarsi, troviamo poi indicazioni precise di comportamento che, di nuovo, riflettono l’esperienza maturata nelle comunità ecclesiali: “va’ e ammoniscilo fra te e lui solo … prendi con te una o due persone … dillo alla comunità … sia per te come il pagano e il pubblicano”.

Anzitutto va precisato che nel v. 15 probabilmente la lezione preferibile è “Se tuo fratello peccherà”, tralasciando quel “contro di te” che va spiegato come armonizzazione con il v. 21 (“Se il mio fratello commette colpe contro di me”). Si tratta cioè di una colpa pubblica, non personale, non diretta in modo particolare contro l’altro. Si trattasse di colpa personale, contro un preciso fratello, non vi sarebbe altra via che il perdono senza misura (cf. Mt 18,21-22). In questo caso, invece, occorre mettere in atto una correzione fraterna che può sfociare anche in una misura drastica. La correzione fraterna è operazione che richiede un profondo senso di fede: la maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale. Occorre essere mossi dalla responsabilità per il corpo comunitario, per il terzo che va oltre l’io e il tu degli eventuali soggetti in conflitto, e tendere al bene della comunità. E qui Matteo ci mostra come anche una comunità che prende seriamente a cuore la sorte della pecora smarrita (Mt 18,12-14) e che ha ben appreso la lezione di Gesù sul perdono e cerca di risolvere i conflitti con la pratica del perdono (cf. Mt 18,21-22), deve ricorrere anche a procedure di esclusione quando ogni altra via si sia rivelata non percorribile. E i vv. 15-17 espongono appunto le vie da percorrere. Se qui abbiamo un ordo della correzione fraterna, l’esigenza di tale operazione è presente altrove nel NT, per esempio, là dove si parla di parla di correggere i disobbedienti (cf. 2Ts 3,15) e di ammonire gli indisciplinati, coloro che si comportano senza norme e ordine (cf. 1Ts 5,14).

Ora, in che cosa consiste la correzione fraterna? Il verbo greco spesso utilizzato nel Nuovo Testamento (noutheteîn) indica il “porre la mente” (noûs) su un altro per aiutarlo a scoprire i suoi sbagli e a evitarli: dunque un’attenzione amorosa, un vegliare sull’altro per correggere i suoi eventuali errori. Il latino corrigere indica il “dirigere insieme” (cum-regere) e denota il carattere condiviso, relazionale della correzione, in cui uno aiuta l’altro a dirigere la propria vita in maniera maggiormente conforme a umanità e santità. Il verbo “ammonire” deriva dal latino ad-monere in cui monere indica il “ricordare”: l’ammonizione è un far ricordare ciò che si è dimenticato, è un riportare alla realtà chi se ne è allontanato. Del resto, spesso il peccato altro non è che dimenticanza di Dio e della sua volontà. Una volontà che il peccatore conosce ma da cui si allontana.

Ecco dunque i tre gradi o le tre tappe della correzione fraterna. Anzitutto, la correzione personale, “fra te e lui solo”, affinché, se il fratello ascolta e si ravvede, il problema è risolto senza l’imbarazzante coinvolgimento di terzi. Se invece non c’è ascolto, la correzione deve avvenire alla presenza di due o tre testimoni, secondo quanto richiesto da Dt 19,15, sia per garantire il diritto dell’accusato (“Un solo testimone non avrà valore contro alcuno”: Dt 19,15) sia perché più testimoni possono attestare “ogni parola” (lett. pân rhêma; omne verbum; CEI traduce “ogni cosa”) proferita nella conversazione tra il peccatore e chi lo corregge. Se neppure in questo caso vi è ascolto, allora “dillo alla chiesa”: l’ultima istanza è la comunità ecclesiale, l’assemblea locale. La correzione deve allora svolgersi nel contesto allargato dell’intera comunità. Sia nel rapporto a tu per tu, che davanti ad alcuni testimoni o di fronte all’assemblea, l’elemento decisivo e discriminante della correzione è relazionale: la capacità di ascolto. Ovvero, la libertà interiore, l’umiltà e l’apertura che riconoscono la bontà del rimprovero che ci viene mosso e che ci porta rinunciare a difenderci contrattaccando o negando e rimuovendo il rimprovero.

E se anche l’ultima istanza dell’ordo della correzione incontra il non-ascolto, allora il peccatore “sia per te come il pagano e il pubblicano” (Mt 18,17). Si tratta di una formula di esclusione in cui viene accordato alla comunità quel potere di sciogliere e legare che era stato affidato a Pietro (Mt 16,19). Dove sciogliere e legare significano perdonare e escludere, permettere e proibire. La comunità, l’assemblea ecclesiale è dotata del potere di ammissione e di esclusione, ma certamente la scomunica è una extrema ratio (cf. 1Cor 5,4-5), mentre il vero, grande potere è quello del perdono.

La correzione fraterna è necessaria per non covare rancore nel proprio cuore contro l’altro: infatti, se non si corregge il fratello peccatore si arriverà a odiarlo. La correzione non è dunque solo per il bene del fratello che riceve la correzione, ma anche per il bene di colui che la esercita. Dice l’Antico Testamento: “Non odierai il tuo fratello nel tuo cuore, ma correggerai apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato contro di lui” (Lv 19,17). Chi, potendolo fare, non corregge il fratello, pecca contro il fratello. La correzione tende a far rientrare il fratello nella relazione dell’alleanza: per questo occorre che sia riattivato il movimento dell’ascolto istituendo un contesto di fiducia. La correzione, in effetti, deve avvenire non come giudizio, ma come servizio di verità e di amore al fratello. Essa è evento pneumatico, frutto dello Spirito (cf. Gal 6,1), si rivolge al peccatore non come a un nemico ma come a un fratello (cf. 2Ts 3,15) e può così ottenere il risultato di ricondurre sulla via della vita un fratello che si stava smarrendo (cf. Gc 5,19-20; Sal 51,15). Ma, come mostra la pagina di Matteo, essa può anche rivelarsi impotente scontrandosi con il muro del non-ascolto e del rifiuto. Che fare quando si giunge a quel punto?

I vv. 19-20 dicono che vi è qualcosa che si può e si deve sempre fare anche quando ogni tentativo di correzione è fallito: la preghiera comune. O meglio, si tratta di accordarsi (verbo symphonéo: v. 19) per pregare insieme per qualsiasi conflitto (cf. 1Cor 6,1; dove ricorre, tradotto con “lite”, lo stesso vocabolo tradotto con “cosa” in Mt 18,19) trovando nel nome del Signore il punto di superamento delle tensioni e il luogo in cui è ancora possibile radunarsi (verbo synághein: v. 20). Il primato è accordato al piano relazionale del ritrovare armonia. Viene in mente la procedura prevista dalla Regola di san Benedetto nei confronti di un fratello peccatore: “L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato” (28,2-5).

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose


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