Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 6 Giugno 2021

555

Un’alleanza di vita per tutti

La festa odierna, che ha al suo cuore la memoria eucaristica, ci sollecita a considerare il senso di una parola e di una realtà che spesso non è presente nel nostro vocabolario e nella nostra sensibilità, ma che svolge un ruolo decisivo nel vissuto dei cristiani. Questa parola è alleanza. Il vangelo mostra Gesù che, durante l’ultima cena, compie l’alleanza riprendendo ma anche modificando l’espressione usata da Mosè al momento della stipulazione dell’alleanza sinaitica. Mosè aveva detto: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,8). Il sangue delle vittime animali che Mosè sparse in parte sull’altare e in parte sul popolo simbolizzava l’unica vita che doveva ormai scorrere tra i due contraenti l’alleanza: Dio e il popolo.

Gesù dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per le moltitudini” (Mc 14,24). Dove il sangue, che nell’antropologia biblica significa la vita, non è più il sangue di animali, ma è simbolo della vita di Gesù. Questa, ormai, è la vita che deve scorrere nel popolo dei credenti in Cristo, di coloro che vogliono entrare nell’alleanza, alleanza che non è tanto rituale, quanto relazionale. Se il sangue di Gesù è il “sangue dell’alleanza”, questo significa che in lui si dà la piena obbedienza a tutte le esigenze dell’alleanza e quindi il compimento di tutti i doni e di tutte le promesse di Dio e non soltanto per Israele, ma per tutte le genti (“versato per molti”: Mc 14,24). Il termine greco polloì, “molti”, per l’espressione semitica che vi sottostà, rinvia a una moltitudine inclusiva di tutti, senza distinzioni e senza discriminazioni. Non si tratta di “molti” nel senso di un gran numero, ma di molti nel senso delle moltitudini, di tutti. Il gesto di Gesù ha una portata universale. Tocchiamo in questo gesto uno dei tanti paradossi della fede cristiana: attraverso la particolarità della persona di Gesù, anzi del suo darsi, del suo andare incontro alla morte, del suo vedersi escluso dalla comunità religiosa di appartenenza con la morte infamante di croce, si realizza la dimensione universale della salvezza. Quella dimensione di cui fa memoria l’eucaristia, che nel nostro testo è colta nella sua dimensione di alleanza. L’atto di mangiare il pane e di bere il vino eucaristici, che significa la partecipazione alla vita di Gesù, consente di entrare nell’alleanza nuova stabilita da Gesù stesso. Un’alleanza in cui il credente deve entrare sempre di nuovo perché essa comporta il passaggio da un’esistenza sotto il segno del peccato a un’esistenza rinnovata dallo Spirito santo. Non a caso al cuore di ogni eucaristia si trovano sempre quegli elementi essenziali della parola, del pasto e del perdono che sono costitutivi della stipulazione dell’alleanza. Questi gesti non rinviano solo a un rito, bensì a realtà umanissime in cui si è invitati a vivere l’alleanza, cioè a far ridiventare corpo e sangue (il nostro corpo e il nostro sangue) il pane e il vino eucaristici.

Le parole di Gesù che proclamano il compimento dell’antica alleanza nel suo sangue, nel suo mistero pasquale, ma anzitutto nella sua vita, accompagnano la quotidianità di un pasto. E non solo il mangiare e il bere, ma anche il dare da mangiare e il dare da bere. Il condividere il cibo, la tavola. Antropologicamente è intorno a una tavola, o almeno davanti a un pasto condiviso, preso insieme, che l’uomo ha iniziato a stringere alleanze, a sigillare patti, a celebrare relazioni di amicizia e di amore. La relazione, l’amicizia, l’amore hanno bisogno di vita e il pasto comune è una quotidiana celebrazione della vita. La comunità dei discepoli di Gesù è intorno a una tavola che vede sigillata la propria fraternità e la propria appartenenza reciproca e al Signore. Ma anche qui siamo rinviati non solo a un pasto pasquale, non solo all’eucaristia, ma alla quotidianità del mangiare insieme. Là dove si nutre la vita, che ha bisogno di cibo, ma anche di parole e di perdono.

Essere nell’alleanza con il Signore significa saper perdonare, vivere il perdono. Il corpo del Signore che è la comunità trova nel perdono il suo sangue, la sua vita, ciò che la può rinnovare ogni giorno, ciò che può consentirle di ricominciare ogni giorno, di riprendere anche dopo le ferite e le incomprensioni reciproche. E il perdono scambiato è la condizione per la verità e l’autenticità dell’atto eucaristico. Una splendida narrazione della capacità di ricostruzione della comunione e di ricreazione dell’alleanza attuata dal pasto condiviso, innaffiato dalla benedizione di parole sapienti, e che conduce allo sciogliersi dei cuori in gesti di perdono chiesto e accordato è il racconto di Karen Blixen Il pranzo di Babette. La parola, il pasto e il perdono sono tre elementi decisivi della stipulazione dell’alleanza ma anche del vivere in alleanza con Dio e con i fratelli. Tre elementi che sono antropologici, ma che sono anche segni dell’amore di Dio, della sua volontà di amore che si esprime nel dono. Se la prima alleanza ci prepara a conoscere la parola di Dio come dono per l’uomo, a conoscere Dio come colui che dona il cibo a suo tempo, che imbandisce una tavola per i suoi, che invita al banchetto di cibi succulenti e vini preziosi, e che perdona i peccati del suo popolo, il Nuovo Testamento ci presenta il compimento di tutto questo nella persona di Gesù che è lui stesso la parola di Dio all’uomo, è lui stesso il pane e il vino che vengono da Dio, è lui stesso che può dire, davanti al calice di vino, “questo è il mio sangue”, e davanti al pane spezzato e condiviso, “questo è il mio corpo”; infine è lui stesso che perdona i peccati e porta i peccati dei peccatori. Ma dietro alla parola, al pasto e al perdono vi è un’unica realtà: una vita che si dona, un amore che si comunica, un’alleanza che si instaura, una relazione che inizia.

Nell’ultima cena Gesù accompagna il gesto dello spezzare il pane e del porgerlo ai discepoli con queste parole: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi, dopo che i discepoli hanno bevuto il vino dal calice che Gesù ha porto loro, dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per le moltitudini”. Il pane è un pane parlato, un pane che la parola del Signore rende simbolo del corpo donato di Gesù, della sua stessa vita risolta in donazione. Ugualmente il vino parlato da Gesù diviene segno della vita donata da Gesù e profezia della sua morte cruenta. Le parole ri-significano il cibo e la bevanda che diventano il segno di un amore che motiva il dono che Gesù fa della sua intera esistenza. Ciò che quel pasto significa è dunque l’amore di Gesù, l’amore di Dio che Gesù ha narrato nella sua intera vita e che vuole narrare fino al dono della vita. Capiamo che l’eucaristia sia stata intesa come sacramentum caritatis, sacramento dell’amore, dell’amore che viene da Dio, che è narrato da Gesù nel suo vivere e che i credenti sono chiamati ad accogliere e a vivere tra loro. Ecco il fondamento e il fine dell’alleanza: l’amore. Null’altro. La comunità di Gesù viene stabilita da queste parole di Gesù pronunciate durante un pasto fraterno come alleanza nell’amore. In particolare, se il pasto preso insieme significa e rafforza la comunione tra i commensali, l’atto, compiuto da chi presiede la tavola, di spezzare il pane e di distribuirlo ai presenti, unisce strettamente i convitati con lui e tra di loro, e anche bere allo stesso calice che egli porge esprime una particolare intimità con lui. Con il suo gesto e le sue parole Gesù fa partecipare i discepoli al dono che Dio fa per loro in quel momento per mezzo suo e per cui Gesù benedice e rende grazie.

Ecco l’alleanza: la vita che Gesù vive anche i discepoli sono chiamati a viverla, l’amore di cui vive Gesù, anche i discepoli sono chiamati a viverlo. La fractio panis e la condivisione del calice (Mc 14,23 come Mt 26,27 sottolineano che “tutti” ne devono bere) stabiliscono una comunità attorno a Gesù, comunità chiamata a partecipare all’atto significativo del pane donato e del calice offerto, ovvero l’essere servi fino al dono della vita sull’esempio del Servo Gesù, “venuto”, come dice Mc 10,45, “non per essere servito ma per servire e per dare la vita in riscatto per le moltitudini”. Così dal Cristo servo si passa, attraverso l’alleanza, alla comunità serva. Il sangue di Cristo, cioè la sua vita vissuta e spesa nell’amare, diviene ora vita offerta, vita donata fino alla morte. Gesù dice che non berrà più quel vino fino a quando lo berrà nuovo nel regno di Dio (14,25). Ma nel tempo della storia resta il vino versato dai cristiani, e non solo l’eucaristia, ma il sangue che è la vita vissuta nell’amore e per amore sulle orme di Cristo e che è narrazione di colui che verrà, è anticipazione escatologica, è profezia del regno. Certamente l’eucaristia è il pasto per il tempo intermedio tra la Pasqua di Cristo e la parusia, ma sarebbe davvero troppo poco questo, sarebbe una riduzione ritualistica di quello che Gesù ha voluto fosse vissuto nell’esistenza, in un’esistenza non religiosa, né sacrale, ma pienamente umana. Anche l’eucaristia non è che segno che rinvia a una realtà di amore che trova la sua realizzazione nella vita, cioè nel corpo e nel sangue, nelle parole, nel concreto perdono. Ancora una volta il vangelo ci chiede di innestare nella nostra umanità la pratica di vita e di amore di Gesù di Nazaret. Ci chiede di divenire umani a immagine di Gesù, lui che era l’immagine del Dio invisibile.

A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose