Chiamate luminose
Come sempre, la seconda domenica di Quaresima presenta l’episodio della Trasfigurazione di Gesù. Un messaggio unitario delle tre letture lo possiamo cogliere nel tema della vocazione. La storia di salvezza, che inizia con la vocazione di Abramo (I lettura: Gen 12,1-4), trova in Gesù il suo punto culminante, come attestano Mosè ed Elia sul monte della Trasfigurazione (vangelo: Mt 17,1-9), e prosegue nei tempi della chiesa con la vocazione santa (2Tm 1,9) dischiusa dal vangelo di Gesù Cristo (II lettura: 2Tm 1,8-10). In Gen 12,1-4, la vocazione, come intuizione e ascolto di una parola non attestata da nessuna scrittura è l’inizio del cammino di Abramo. La vocazione si esprime nei suoi effetti come uscita, come esodo: essa mette in cammino Abramo che “partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).
L’immagine della vocazione come viaggio è suggestiva e arricchisce la vocazione stessa di diversi elementi che sono fondamentali per ogni esistenza. Ciò che è necessario per intraprendere e portare a compimento un lungo viaggio è necessario anche per intraprendere e portare a compimento la vocazione ricevuta: fiducia, desiderio, coraggio, perseveranza. Ma se la narrazione di Genesi presenta la vocazione come inizio, inizio primo, il vangelo la presenta come nuovo inizio. Alla Trasfigurazione di Gesù sono presenti tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, a cui viene rivolto dalla voce divina il comando di ascoltare Gesù: “Ascoltatelo” (Mt 17,5).
Essi che, non erano stati in grado di ascoltare e recepire le parole rivolte loro da Gesù circa la necessità della sua passione e morte (Mt 16,21-28), si vedono rinviati, come in un rinnovamento della vocazione, a quell’ascolto che solo fonda la fede e rende possibile la sequela, il cammino dietro a Gesù che non si sa dove possa condurre. Nella Trasfigurazione la vocazione appare mediata dalle Scritture rappresentate da Mosè e Elia, la Legge e i Profeti. La vocazione è dunque inizio, ma anche nuovo inizio, re-inizio. Anzi, il sì detto alla propria vocazione necessita di essere ridetto quotidianamente, così che ogni giorno è re-inizio del cammino del credente. Questa è la “vocazione santa” (klésis aghía) dei battezzati di cui parla la seconda lettura: vocazione che rende partecipi di una storia che fa del credente un testimone, un mártyr. Pertanto, la vocazione non è un momento, ma una storia che agisce sul credente e ne plasma la santità se lui accetta di perseverare in essa.
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Gesù, presi con sé tre discepoli, sale su un alto monte dove, annota l’evangelista, “fu trasfigurato” (Mt 17,2), con un passivo che indica l’azione divina. Ciò che avviene non nasce dalla terra, ma viene dal cielo. Matteo non dice che Gesù stia pregando, come fa Luca nel racconto parallelo (Lc 9,28-29), tuttavia ciò che accade ricorda quanto avvenuto a Mosè quando, salito sul monte Sinai per ricevere per la seconda volta le tavole della Legge, ne discese con la pelle del volto divenuta raggiante perché “aveva conversato con Dio” (Es 34,29). Ciò che è avvenuto è opera divina, opera di quel Dio che, scriveva Bernardo di Chiaravalle, è “volto senza forma che dà forma e trasforma”.
E la forma divina è la luce, la luminosità. Rispetto ai testi paralleli di Marco e di Luca, Matteo sottolinea la dimensione della luminosità. Se Luca scrive che il volto di Gesù “cambiò d’aspetto” (lett.: “divenne altro”; Lc 9,29), Matteo scrive che “risplendette (vb. lámpein) come il sole” (Mt 17,2). Solo Matteo annota anche che le vesti di Gesù divennero bianche “come la luce” (Mt 17,2) e che la nube che scese sull’alto monte era “luminosa” (Mt 17,5). Il verbo “risplendere” (lámpein) Matteo l’ha già usato per ricordare ai discepoli che come la lampada deve risplendere su chi si trova nella casa, così la loro luce deve risplendere davanti agli uomini (cf. Mt 5,15-16).
Il motivo del sole riprende anch’esso quanto affermato da Gesù circa i giusti che “risplenderanno come il sole nel Regno del Padre loro” (Mt 13,43). La luce divina che irraggia da Cristo trasfigurato deve riflettersi nelle vite dei credenti. Sull’alto monte anche i discepoli vedono la luce che abita in Gesù, anzi, che Gesù stesso è. E la luce si trasfonde in chi la contempla. La Trasfigurazione di Gesù, che avviene davanti ai discepoli (“Gesù fu trasfigurato davanti a loro”: Mt 17,2), diventa esperienza di illuminazione per loro, almeno per un momento, e apre loro gli occhi così che essi non solo vedono le vesti bianche e luminose di Gesù, ma anche Elia e Mosè che conversavano con lui.
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La Trasfigurazione è anche apertura degli occhi dei discepoli che vedono chi veramente è Gesù. L’evento divino della Trasfigurazione, evento riguardante Gesù e lui solo, la sua unicità e la sua persona messianica, trova una via di comunicazione ai credenti nella storia. Il credente può esporsi all’illuminazione della Parola di Dio contenuta nelle Scritture. “L’apertura delle tue parole illumina” (Sal 119,130) dice il Salmo. L’apertura della Scrittura diviene apertura dei nostri occhi. La lettura, la meditazione, la ruminazione, l’intelligenza delle parole della Scrittura ci aiuta a comprendere il Signore e i suoi modi, a conoscerlo e ad amarlo, e così ci dona intelligenza su noi stessi e ci insegna a vivere. Insomma, ci dona sapienza, cioè arte di vivere secondo il vangelo.
“La rivelazione delle tue parole illumina, dona intelligenza ai semplici” (Sal 119,130). La luce del dialogo tra Gesù e Mosè ed Elia, ovvero la Legge e i Profeti, illumina anche i tre testimoni della nuova alleanza. Il trattato di Ugo di san Vittore (XII sec.), il Didaskalikon, si apre con le parole: “La sapienza illumina l’uomo affinché conosca se stesso”. La pratica della lectio divina è un’esperienza di illuminazione e di trasformazione: le pagine bibliche certo non sono per noi luminose e traslucide come i fogli di pergamena all’epoca di Ugo di san Vittore, che, anche con le loro miniature, esposte alla luce di una candela, brillavano come di luce propria, ma ci illumina perché ci consente di conoscerci, agendo come uno specchio, consentendoci di vederci non come gli altri ci vedono e ci giudicano, ma, da un lato, restituendoci il nostro sguardo su di noi, e dall’altro, riflettendo su di noi l’immagine della gloria di Dio che risplende sul volto di Cristo e rinnovando così la nostra chiamata a vivere e camminare da figli della luce.
Gesù risplende di luce ed è nella gloria quando è tra Mosè ed Elia, al cuore dell’unità delle Scritture, ed è sempre entrando nel dialogo tra prima e nuova alleanza che anche i credenti possono lasciarsi illuminare dalla luce della parola di Dio che orienta il discernimento. La pratica dell’ascolto della parola di Dio nelle Scritture, la lectio divina, può rendere luminoso lo sguardo del credente, rinsaldare la sua vocazione e rendere luminoso il suo corpo. Non è un caso che la testimonianza sulla Trasfigurazione contenuta nella seconda lettera di Pietro si concluda con l’esortazione a volgersi alla parola della Scrittura, alla parola dei Profeti, vera lampada che illumina e risplende in luogo oscuro, e che ci indica nell’oggi la strada da percorrere fin quando saremo luce nel Signore (cf. 2Pt 1-16-19).
E non è un caso neppure il fatto che l’esperienza della Trasfigurazione di Gesù coinvolga la totalità della persona dei discepoli, anche i loro sensi: essi non solo ascoltano e vedono, ma sono anche toccati da Gesù, annota ancora solo Matteo fra gli evangelisti (Mt 17,7: “toccandoli”). Il corpo è il soggetto dell’esperienza spirituale e i sensi corporei intervengono in essa. La comunione con Dio e con i fratelli trova nel corpo il suo luogo. Ma i sensi devono essere educati dall’ascolto della parola di Dio nelle Scritture. Ecco dunque che quando i discepoli si rialzano, istruiti sul loro cammino di fede dall’ascolto della parola di Dio e del Figlio Gesù Cristo, vedono Gesù solo (Mt 17,8). Se al Sinai il popolo “vide le voci” (Es 20,18), sul monte della Trasfigurazione i discepoli vedono la Parola stessa, vedono il Verbo. Vedono colui che con la sua vita e le sue parole narra il Dio che parla e che agisce.
Allora è il loro desiderio che viene sollecitato, destato, e orientato a Cristo, all’amare come lui ha amato e questa unificazione del desiderio e della vita potrà sorreggere la sequela dei discepoli fino alla fine, fino alla morte seguendo il Signore. Avviene come nel famoso detto dei padri del deserto: “A un anziano fu chiesto: Come può un monaco pieno di zelo non restare scandalizzato quando vede qualcuno ritornare nel mondo? Ed egli rispose: Bisogna guardare i cani che cacciano le lepri: uno di loro, avvistata la lepre, la insegue finché non l’abbia raggiunta, senza lasciarsi trattenere da nulla; gli altri invece vedono soltanto il cane che insegue e corrono con lui per un po’, poi ci ripensano e tornano indietro. Solo quello che ha visto la lepre la insegue finché non l’abbia raggiunta e nel perseguire la meta della sua corsa non si lascia trattenere da quelli che sono tornati indietro, né si preoccupa dei precipizi, dei rovi o delle spine. Così anche colui che cerca Cristo, fissando incessantemente la croce, supera tutti gli ostacoli che incontra, finché non abbia raggiunto il Crocifisso”. La visione sull’alto monte suscita il desiderio del credente e lo orienta a Cristo, luce che indica il cammino da percorrere.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose